3
Ago
2010

Gli USA e noi, ancora più deficit e tasse?

Negli Stati Uniti è partito il grande dibattito (vedi l‘impostazione che ne dà Morgan Stanley)  intorno a se confermare i tagli alle tasse introdotti da Bush e che il Congresso approvò solo “a tempo”, con scadenza al dicembre 2010. E il dibattito si innesta su richieste sempre più corpose di una nuova manovra di finanza pubblica con massiccio debito aggiuntivo, per sostenere l’economia. Non è un confronto che riguarda solo gli USA, ma l’exit strategy mondiale dalla crisi. La scelta americana su fisco e spesa pubblica avrà effetti complessivi. Perché a sua volta si innesta su una ripresa mondiale che nel secondo trimestre 2010 ha cambiato passo rispetto al primo, rivelatosi insostenibile. Tanto è vero che l’indice PMI degli ordini esteri globali è in frenata nella seconda metà 2010 rispetto alla prima, a luglio la previsione era su 54,4 (oltre quota 50 significa espansione) rispetto al 58,1 del primo semestre. E’ l’effetto combinato dell’atterraggio morbido della Cina, e dell’esaurimento progressivo dell’effetto aiuti pubblici negli USA. Il primo fattore merita un voto positivo. Il secondo, no.

La Cina ha visto la crescita del suo Pil nel secondo trimestre 2010 decelerare al più 1,9% rispetto al più 2,3% del primo, col che il tasso di crescita annuo è sceso dal più 11,9% a un pur sempre rispettabilissimo più 10,3%. Il freno segue alle politiche restrittive attuate per evitare il surriscaldamento del tono generale dell’economia e del credito, nonché per impedire che l’inflazione salga stabilmente sopra la soglia del 3% (era al 2,9% in giugno). L’indice Pmi manifatturiero cinese si tiene in area espansiva ma in giugno scende a 52,1 da 53,9, e nel mese la produzione industriale cresce sull’anno di un più 13,7% rispetto al precedente più 16,5%. Analogo il tono della crescita dell’export, che sull’anno in giugno sale di uno spettacolare più 43,9%, ma in attenuazione sul più 48,5% di maggio. Vedremo nei prossimi mesi quale sarà l’effetto che sulla domanda interna – e sull’export dei Paesi Ocse verso la Cina – sarà determinato dalle massicce politiche di aumento salariale in atto in Cina, dal più 10% al più 20% in termini annuali reali a seconda delle diverse aree e settori.

Quanto agli Usa, dopo un ultimo trimestre 2009 che vedeva la crescita del Gdp annuale quasi più vicina al 6 che al 5%, e dopo un primo trimestre 2010 più vicino al 4% che al 3, ecco che la prima stima del secondo trimestre è scesa ancora, ed è più vicina al 2% che al 3%. Per chi viene dalla “nostra” scuola di Chicago, è l’effetto fin troppo prevedibile della sopravvalutazione dei moltiplicatori keynesiani della spesa pubblica effettuata dall’amministrazione Obama con il grande deficit pubblico 2009 per sostenere l’economia. Nel breve l’effetto sembra portentoso, ma dopo tre-quattro trimestri ecco che l’effetto traino del deficit pubblico si rivela per quel che è: assai meno stabile e – soprattutto – sano di tagli duraturi alle tasse comprimendo la spesa, poiché gli attori del mercato iniziano a scontare l’aumento futuro delle tasse in cui inevitabilmente si tradurrà il deficit odierno. Nel marzo-aprile 2009, mentre l’amministrazione Obama si imbarcava nei maxi deficit pubbici a sostegno dell’economia, Harald Uhlig – economista tedesco che insegna a Chicago – aggiornava alla condizione degli USA di allora il suo noto studio sui più benefici effetti di aumento dell’output potenziale che vengono da tagli fiscali duraturi, rispetto alla spesa pubblica in deficit, mettendo in questione inoltre la riservatezza del modello econometrico DSGE seguito dalla FED, che improvvisamente asseverava moltplicatori keynesiani largamente superiori all’unità predicati dai consiglieri economici di Obama. Consiglio veramente a tutti di leggerlo, è molto istruttivo e pianamente affronta i punti salienti – verifiche alla mano – di ciò di cui siamo convionti noi portatori di questa visione.

Ma la via “offertista” alla ripresa è rimasta inascoltata in America. Tanto che oggi non solo il solito Paul Krugman, ma anche osservatori come Bob Shiller scrivono che in queste condizioni tanto vale fare come Roosevelt, e assumere un milione di americani a 30 mila dollari l’anno per 30 miliardi di deficit aggiuntivo, allo scopo di piantare alberi ai lati delle strade. La stessa Goldman Sachs invoca una nuova manovra in deficit nei suoi report macro riferiti agli USA.

Analogamente, Fareed Zakaria e tutta l’intellettualità liberal che in Europa fa sognare le sinistre ha preso a occupare le colonne del New York Times e del Washington Post invocando l’abrogazione integrale dei tagli fiscali bushiani, sostenendo che ne verrebbero oltre 100 miliardi di dollari di entrate aggiuntive da destinare alla spesa. Dimenticando puntualmente di ricordare che da questa decisione discenderebbe un’ulteriore decelerazione della crescita americana, da uno 0,5 a uno 0,7% di Pil in meno. Vedremo. Se fossi un cittadino americano sarei in piazza a protestare con chi anima il movimento dei tea parties, ma in novembre si avvicinano le elezioni del midterm e non c’è da contare sul fatto che l’Amministrazione non spenda altri dollari del contribuente, pur di non far scendere troppo la crescita. Nel breve, perché il medio-lungo è problema che per definizione i politici rimandano al dopo. In Europa, che ha intrapreso obbligatoriamente ma stentatamente la via del taglio al deficit, la politica tax and spend degli USA rischia di produrre pessimi effetti politici.

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1 Response

  1. merlino

    piccolo dettaglio, forse insignificante per alcuni: l exit strategy è già iniziata pompando una montagna di soldi pubblici nelle aziende in crisi.
    forse non fra un mese, non fra un anno, ma prima o poi ci arriverà il conto, parecchio salato. quando arriverà si vedranno i VERI effetti della crisi…. siamo nel foyer della grande crisi, lo distruttivo spettacolo deve ancora iniziare!!
    sig!

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