Consigli di lettura per il Natale 2025 – Consiglio speciale!
Prima premessa: non scrivo mai in prima persona. Oggi faccio un’eccezione. Seconda premessa: l’autore del libro di cui sto per parlare è uno dei miei migliori amici, un mio collega (anzi, il direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, per cui lavoro) e forse, tra le persone che conosco, quella che legge più cose, sa più cose, collega più cose. Non lo dico per piaggeria né per viziato da un’amicizia che risale a molti anni fa e il libro di cui sto per parlare lo dimostra. Tra i non pochi libri dedicati a quel periodo, Meglio poter scegliere. I referendum del 1995 e la battaglia per la televisione commerciale (Mondadori) di Alberto Mingardi è forse la più sfaccettata e completa lettura su come l’Italia è cambiata a cavallo degli anni Novanta: e questo è vero sia se siete dei vecchietti che ne hanno memoria diretta, sia se siete dei ragazzini che ne hanno solo sentito parlare.
Alberto prende le mosse da un pretesto: l’anniversario di un referendum dimenticato. L’11 giugno 1995 gli italiani si pronunciarono su dodici quesiti, che spaziavano dalle rappresentanze sindacali al contratto del pubblico impiego, dal soggiorno cautelare alla legge elettorali per i comuni. Le schede più importanti, quelle a cui il volume è dedicato e che ebbero conseguenze tanto enormi quanto rimosse sulla politica italiana, furono tre: la decima (per impedire a un singolo soggetto, Rai esclusa, di possedere più di due reti televisive nazionali); l’undicesima (per vietare le interruzioni pubblicitarie all’interno dei film, escluse quelle tra il primo e il secondo tempo); e la dodicesima (per mettere un tetto alla raccolta pubblicitaria da parte delle reti private). La campagna elettorale ruotò soprattutto attorno al quesito relativo alle interruzioni pubblicitarie, perché era quello che meglio si prestava a diventare slogan. E infatti lo slogan fu da manuale: non s’interrompe un’emozione, con l’appoggio dei nomi più splendenti del firmamento cinematografico italiano dell’epoca.
L’emozione che regge l’intero libro è più vasta della mera visione di un film: abbraccia la storia della televisione – e per riflesso la storia economica e politica – in Italia dalla fine degli anni Settanta a oggi. I referendum del 1995 furono, in questo, paradigmatici su due livelli differenti: da un lato, rappresentarono un chiaro spartiacque nella carriera politica di Silvio Berlusconi, che in caso di sconfitta sarebbe stato probabilmente costretto a tornare alle sue aziende; dall’altro, fu un referendum dal quale il Cav. si chiamò fuori (su consiglio di alcuni dei suoi, e non dei più noti, che invece premevano per trovare un compromesso). La campagna elettorale la fecero, letteralmente, le televisioni, le persone che vi lavoravano e coloro che le guardavano. Non vanno intese queste parole – e Mingardi lo mostra in modo eloquente – nel senso che vi fu una mobilitazione organizzata: certo, vi fu anche questa, ma fu soprattutto un movimento dal basso, fatto di individui che, dai due lati del piccolo schermo, si impegnarono per difendere la libertà televisiva e, forse, attraverso di essa la libertà d’impresa. La maggioranza dei votanti si pronunciò contro i quesiti: e, dunque, a favore di Berlusconi ma soprattutto delle sue tv. Mingardi argomenta che questo accadde perché gli italiani capirono l’alternativa reale: i promotori del referendum speravano che gli italiani avrebbero scelto ciò che sarebbe stato in luogo di ciò che era, gli elettori votarono invece a favore di ciò che era temendo il ritorno a quel che era stato. La scelta fu tra il presente, il pluralismo televisivo, e un passato ancora fresco, il monopolio Rai. Sei reti erano meglio di tre.
Il libro percorre sentieri differenti: spiega come il progresso tecnico nel campo delle comunicazioni abbia liberato forze prima inimmaginabili; illustra il dibattito degli economisti sulla scarsità dello spettro elettromagnetico e sulle modalità per la sua allocazione; racconta la vicenda eroica delle tv e delle radio libere; narra la cavalcata del Berlusconi imprenditore per aggirare e forzare il diritto, tra collateralismo socialista, diffidenze democristiane e antipatie comuniste; descrive le contorsioni di magistrati e politici alle prese con la scelta se (letteralmente) oscurare i puffi; ricostruisce meticolosamente il confronto politico e parlamentare e il modo in cui si arrivò all’assetto radio televisivo che infine sarebbe stato esposto al giudizio popolare nel 1995; colloca in questo contesto la fine della Prima Repubblica, l’avvento del Cav. e la riorganizzazione del quadro politico.
La parte forse più complessa del libro è quella finale, in cui – dopo aver raccontato la storia – Alberto cerca di trarne le fila: perché, se quella del 1995 fu una fase tanto importante come dice, nessuno se la ricorda? La risposta è che la sinistra, per ovvie ragioni, ha voluto accantonare una sconfitta; ma la destra “ha dimenticato i referendum perché non li vinse lei”. Infatti, “Berlusconi supera l’ordalia proprio perché si sposta di lato, perché sui carboni ardenti non cammina lui, ma la sua azienda. È la Fininvest che vince il referendum e ce la fa proprio perché riesce il disaccoppiamento fra impresa e fondatore”. E ancora: “Il «giudizio di Dio» non lo superò lui. Lo superarono Sandra e Raimondo, Mike e Corrado, lo superarono Dallas e Baywatch, lo superarono i lavoratori Fininvest che non volevano essere confusi con Forza Italia. Vinsero loro, e vinsero gli italiani che si resero conto davvero che è meglio conservare la libertà concreta di scegliere fra sei canali televisivi, anziché ritrovarsi con tre. È meglio poter scegliere” (questo era lo slogan del no).
E il duopolio televisivo? È un tema reale, che Alberto non elude, ma che riconduce al contesto in cui la Fininvest (oggi Mediaset) nacque e crebbe. Era costretta, per vivere, a essere ingombrante, perché ancora più ingombrante era il suo rivale, cioè la Rai. Tesi confermata da Giuliano Amato, all’epoca presidente dell’Antitrust: “La prima responsabilità del duopolio” è sulle spalle “di chi non accettò a suo tempo di ridimensionare la Rai”. Dopo di che, la fine del duopolio non è arrivata dalle leggi ma dalla tecnologia; non dalla concorrenza in vitro alla base della strategia referendaria ma dalla concorrenza viva del satellite e delle piattaforme di streaming, che hanno definitivamente fatto piazza pulita del pregiudizio della scarsità dell’etere.
Il libro è in fondo una dichiarazione di amore di Mingardi per Berlusconi: non per il Berlusconi politico, che – quali che siano i suoi meriti – non ha certo lasciato un’eredità paragonabile a Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Semmai, “Mosso dal proprio interesse, mentre scalava la classifica degli uomini più ricchi del Paese, la rivoluzione liberale Berlusconi l’aveva fatta prima di scendere in campo”. E se fu la sinistra ad attuare una politica, almeno per un certo periodo, di apertura del mercato, con liberalizzazioni e privatizzazioni, fu anche – altra tesi di Alberto – per effetto di quel voto referendario in cui le masse popolari avevano anteposto il proprio interesse televisivo alla fedeltà politica.
Questo è, davvero, un libro che non si può non leggere. Per come è scritto. Per quello che racconta. Per la ricchezza delle fonti. Per la completezza e complessità dell’analisi. Perché senza capire quel 1995, si fatica a capire l’attuale 2025. Perché è, contemporaneamente, una lezione di storia, di economia, di politica e di evoluzione sociale. Una recensione come questa – visto l’argomento, visto l’autore del libro e visto il rapporto che mi lega a lui – non può che concludersi con la sottolineatura di un aspetto che percorre tutto il volume: i prodotti culturali sono anzitutto prodotti commerciali. Vale per le televisioni e per i film, che la pubblicità ha consentito di offrire i telespettatori, chiedendo alla loro attenzione ciò che non veniva chiesto al loro portafoglio. Vale anche per un libro, che si rivolge necessariamente al portafoglio, prima che all’attenzione: con 20,90 euro farete uno splendido regalo a voi stessi e ai vostri cari. Comprarlo, prima di leggerlo, è un modo per votare ancora una volta “sì” e dire che la libertà di scelta è essa stessa un’emozione ininterrotta e indisponibile.














