19
Giu
2012

Alcune riflessioni sulle recenti proposte di controllo della spesa sanitaria – di Vincenzo Atella

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Vincenzo Atella.

Le recenti indiscrezioni sulle ipotesi che a livello governativo si stanno facendo per ridurre la spesa sanitaria pubblica nei prossimi due anni hanno generato un’ampia discussione tra gli addetti ai lavori, suscitando in non pochi casi molto scalpore. Secondo tali indiscrezioni, i risparmi avrebbero dovuto essere ottenuti con l’imposizione di maggiori tickets (anche sui ricoveri ospedalieri) e/o l’introduzione di una serie di franchigie. Nel giro di pochi giorni il Ministro Balduzzi ha, però, prontamente e fermamente smentito tali voci, asserendo che quelle ipotesi erano state fatte dal precedente Governo e che non sarebbero state riprese dall’attuale esecutivo.

In un recente intervento sul tema, apparso su questo blog a firma di Lucia Quaglino, si sostiene la tesi che il Ministro avrebbe fatto bene a non ritrattare immediatamente l’ipotesi di introduzione di ticket o franchigie senza aver prima proposto un’alternativa valida per poter incidere in modo concreto sui costi della sanità. A supporto di tale tesi, la Quaglino utilizza in modo corretto e intelligente una serie di dati recentemente presentati all’interno del Rapporto 2012 sulla sanità in controluce della Fondazione Farmafactoring. Secondo la Quaglino, dal Rapporto si evince che “la dinamica tendenziale dei costi indicherebbe l’esistenza di fattori strutturali che causerebbero nei prossimi anni una crescita: (a) importante; (b) incompatibile con i livelli di finanziamento. Prima di smentire in fretta e furia l’idea di far contribuire ai cittadini per le loro spese, sarebbe quindi opportuno ragionare sull’auspicabile proseguimento di un trend di crescita contenuta della spesa e mirata a contenere il disavanzo.”

Come studioso del fenomeno e curatore del suddetto Rapporto, condivido pienamente la tesi secondo cui è necessario pensare quanto prima a una strategia di medio-lungo periodo, in grado di cambiare in modo strutturale il sentiero di crescita della spesa. Al tempo stesso, però, devo anche evidenziare che sono soddisfatto della scelta fatta dal Ministro di non utilizzare strumenti quali ticket e franchigie per arrivare a questo risultato. Qui di seguito proverò ad argomentare questa mia tesi e a suggerire una possibile soluzione, basandomi su una serie di evidenze presentate e discusse nel Rapporto.

I fatti

Il primo punto da evidenziare è che se si guarda all’andamento della spesa sanitaria pubblica nell’ultimo decennio, confrontando la sola parte relativa ai servizi sanitari (farmaci, accertamenti diagnostici, visite specialistiche e ricoveri ospedalieri) con quella complessiva (che include anche i costi di struttura e gestione), si scopre che la prima è perfettamente stabile (in termini correnti!), mentre la seconda è risultata essere in continua crescita: nel 2004 il differenziale tra le due voci di costo era di circa 350 euro pro-capite per anno, mentre nel 2010 lo stesso differenziale è salito a circa 650 euro! (vedi Fig.1) Questo primo risultato mette in luce un fatto molto importante. Negli ultimi anni chi ha gestito la sanità è stato molto bravo a monitorare quella parte di spesa sanitaria che ha a che fare con la prestazione dei servizi sanitari, mentre poco o nulla si è fatto su tutte le altre voci di spesa. Il risultato è che il differenziale è sostanzialmente raddoppiato in 6 anni! Se poi guardassimo a questi dati separando le regioni “con” e “senza” piano di rientro, scopriremmo che le ultime sono riuscite a riallineare la spesa per servizi sanitari a livello di quella delle regioni “senza” piano di rientro (quindi abbassando la spesa per servizi sanitari), ma nulla è stato fatto sull’altro fronte.

Il secondo punto riguarda invece l’utilizzo di strumenti di contenimento della spesa pubblica quali la compartecipazione o le franchigie. La letteratura internazionale sull’argomento è abbastanza concorde: questi strumenti sono molto utili dal punto di vista economico-finanziario perché in grado di controllare la spesa, ma producono grossi problemi dal punto di vista sanitario limitando l’accesso alle cure da parte dei pazienti. Il risultato finale è un trade-off tra risparmi di breve periodo e maggiori costi di cure nel lungo periodo, dovuto al fatto che questi strumenti riducono la compliance medica da parte del paziente, cosa che spesso porta a livelli di complicanze mediche maggiori nel lungo periodo.

La lettura congiunta di questi due fenomeni dovrebbe portare a concludere che è sì necessario continuare ad intervenire sulla spesa sanitaria pubblica in Italia, ma sarebbe giunto il momento di guardare ad altri comparti della spesa che non siano i soliti noti e sui quali tanto si è fatto fino ad oggi per ridurre gli spechi. Insistere solo sulla parte di spesa che è già sotto controllo per farla ulteriormente diminuire ci farà risparmiare qualcosa oggi, ma ci farà spendere molto di più in futuro. Conviene?

A margine di queste brevi considerazioni, mi permetto di aggiungere una ulteriore notazione che, purtroppo, viene da pochi valutata come rilevante per il controllo della spesa pubblica italiana. Se proviamo a guardare alla dinamica della spesa sanitaria italiana nel 2004 e la confrontiamo con quella degli ultimi anni ci rendiamo conto dei grossi passi in avanti che sono stati fatti. Siamo passati da tassi di crescita superiori al 5% all’anno a tassi in linea con il tasso di crescita del PIL. Il miglioramento che si è registrato è stato possibile grazie alla raccolta di dati e informazioni che hanno permesso al sistema di essere adeguatamente monitorato (oggi si conosce pressoché tutto su tutti i consumi sanitari!). I risultati della Figura 1 sono l’evidenza più chiara di questo fenomeno: senza informazioni non si fa monitoraggio e i settori in cui i dati non sono disponibili sono quelli in cui si è fatto di meno. Questa esperienza, che per ora è limitata al solo settore della sanità, dovrebbe essere quanto prima estesa a tutti gli altri settori della pubblica amministrazione, con l’obiettivo di capire quali sono i centri di spesa anomali e da lì intervenire per porvi rimedio.

Una possibile soluzione per il futuro

Vale la pena di ricordare che la quantità di risorse necessarie per garantire la disponibilità di cure (a una popolazione che continuerà ad invecchiare) sarà sempre in aumento, con una progressione di spesa che, ad oggi, risulta difficilmente credibile possa essere garantita dallo Stato. Immaginare di recuperare efficienza per abbassare i costi è sicuramente uno dei percorsi da perseguire da subito, ma non sarà certo la strategia risolutiva in futuro. Il compito più importante per i policy makers sarà, invece, quello di affrontare i problemi della sanità in un contesto di approccio strutturale, e non certo secondo interventi ad hoc come ampiamente fatto negli anni passati e come si insiste a fare se si agisce solo su ticket e franchigie.

Un altro importante risultato che emerge dalla lettura del Rapporto è che sono molte le esperienze a livello di ASL che hanno dimostrato come sia possibile migliorare la presa in carico dei pazienti da parte dei medici senza aumentare i costi del SSN. Investire in prevenzione sarà sicuramente la forma di investimento con il più elevato ritorno in termini di benefici per euro speso da parte della popolazione. Ma anche in questo caso sarà necessario capire dove esattamente intervenire e con quali strumenti. Da questo punto di vista, la disponibilità di dati e studi sempre più aggiornati e dettagliati potrà aiutare a capire i problemi della sanità e a disegnare soluzioni adatte.

Fig. 1 – Confronto tra spesa sanitaria totale (SSN) e spesa per la cura diretta dei pazienti (HS)

Fonte: Rapporto Fondazione Farmafactoring 2012

Vincenzo Atella è Direttore Scientifico Fondazione Farmafactoring, Dipartimento di Economia e Finanza – Università di Roma Tor Vergata, CHP – PCOR Stanford University

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11 Responses

  1. thomas

    proprio qualche giorno fa ho visitato un’azienda (nord italia)di software LOgistici
    Per ora non posso fare nomi(mi è stato richiesto)purtroppo.

    Riassumo:
    Al momento non c’è un vero controllo sulla gestione magazzino farmaci nelle asl italiane, molti, moltissimi farmaci vengono buttati perchè scaduti e perchè vengono effettuato dei super ordini!!!
    PERCHE’ UN PRIMARIO DEVO PRENDERE ANCHE LA % SULLA FORNITURA DEI FARMACI,NON GLI BASTA LA BELLA PAGA A 5 ZERI CHE GIA PERCEPISE!!!!!

    Quindi in questa asl il rislultato è stato di un risparmio di MILIONI DI EURO in pochi mesi!!!!
    Questo caso poi è al nord , con tutto rispetto immaginiamo al sud!!

    Immaginiamo di applicare questo metodo a tutto il sistema ospedaliero italiano e possiamo quantificare un risparmio di centinai, SI CENTINAIA di Milioni di Euro annui.

    Se poi sommiamo questo ad interventi di efficenza energetica (abbiamo ancora ospedali che vanno a Gasolio), possiamo ipotizzare risparmi sul ordine di quelache MIGLIARDO DI EURO annui.

  2. andrea

    Molto condivisibile questo articolo.

    Chiedo di spiegare meglio quali voci rientrano nella componente, apparentemente intoccabile, costi di struttura e gestione.
    In quale componente rientrano le convenzioni con le case di cura?
    E’ vero, in una valutazione territoriale, che la regione Lazio (leggasi Roma) da sola pesa per quasi il 60% della spesa sanitaria nazionale?

    Grazie

  3. freedom

    Dati eloquenti tratti da: http://www.cermlab.it/_documents/_argomenti/SaniRegio2_by_CeRM_PAMMOLLI_SALERNO_MAGGIO_2011.pdf

    Sono cinque le Regioni per le quali il gap di efficienza e di qualità risulta particolarmente acuto:
    Campania, Sicilia, Puglia, Calabria e Lazio.

    La Campania dovrebbe ridurre la spesa di oltre il 33% e aumentare la qualità di quasi il 90%, per emulare in tutto e per tutto l’Umbria.
    La Sicilia dovrebbe ridurre la spesa di oltre il 24% e aumentare la qualità anch’essa di quasi il 90%.
    La Puglia dovrebbe ridurre la spesa di quasi il 24% e aumentare la qualità di oltre il 96%.
    La Calabria dovrebbe ridurre la spesa di poco più 15% e aumentare la qualità di oltre il 132% (un
    più che raddoppio).
    Il Lazio, infine, dovrebbe ridurre la spesa di quasi il 13% e aumentare la qualità di oltre il 76% (un ritardo che va soppesato anche alla luce della mobilità in ingresso nel Lazio).

    Tradotti in valori assoluti e aggregati, i gap di spesa originano valori che colpisco per gli ordini
    di grandezza. La Campania dovrebbe liberare risorse per oltre 3,4 miliardi di Euro/anno. La
    Sicilia per oltre 2,1 miliardi. La Puglia per quasi 1,8 miliardi. Il Lazio per quasi 1,5 miliardi. La
    Calabria per oltre 560 milioni. Su quest’ultimo dato incide la relativa minor popolosità della
    Regione rispetto alle altre quattro.

    Nel complesso, le cinque Regioni più devianti potrebbero liberare risorse per circa 9,4
    miliardi/anno, più del 77% delle risorse, oltre 12 miliardi equivalenti a circa lo 0,8% del Pil,
    che si libererebbero a livello Paese se tutte le Regioni si posizionassero sulla frontiera efficiente
    e condividessero le stesse performance dell’Umbria, il benchmark.

    Le altre Regioni
    Al di là di questi cinque casi macroscopici, è importante sottolineare anche le posizioni delle altre Regioni:
    ⎯ L’Umbria e il Friuli Venezia Giulia sono le Regioni che spiccano sui entrambe le
    dimensioni (spesa, qualità). Le uniche due che, almeno in linea di principio, non
    sarebbero chiamate a interventi correttivi;
    ⎯ Alla luce dei risultati, le Marche sono accumunabili a Umbria e Friuli Venezia Giulia,
    mostrandosi quasi allineate allo standard per quanto riguarda la spesa, e staccate solo
    marginalmente sulla qualità;
    ⎯ Emilia Romagna, Lombardia e Toscana hanno gap contenuti sulla spesa (1%, 1,% e
    2,4% rispettivamente), e solo un po’ più evidenti sulla qualità (7,5%, 9,9% e 3,1);
    ⎯ Per Piemonte, Veneto e Liguria i due gap si ampliano, pur rimanendo in range
    nettamente migliori della media Italia: per la spesa i gap sono, rispettivamente, del
    3,1%, del 5,2% e del 7%; per la qualità, del 4,2%, del 7,5%, e del 28,2%; F. Pammolli, N. C. Salerno | SaniRegio 2
    83 | CeRM – Competitività, Regole, Mercati | Working Paper n. 2 | Maggio 2011
    ⎯ La Liguria, in effetti, si rivela Regione borderline sotto entrambe le dimensioni: è
    l’ultima, nell’ordine in cui si sta facendo l’elenco, con gap di spesa ad una sola cifra
    percentuale; se, si escludono i casi del Trentino Alto Adige e della valle d’Aosta, è
    l’ultima con un gap di efficienza non macroscopico (dopo la Liguria c’è un vero
    “gradino” di qualità come si evince nel Grafico 3);
    ⎯ Le rimanenti Regioni hanno tutte gap di spesa a doppia cifra, che vanno dal 10,4% del
    Trentino Alto Adige al 15,3% del Molise. Tra queste, solo due hanno un buon livello di
    qualità, il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta. Il primo con un gap di qualità del
    6,4%, la seconda del 16,3%. Queste due Regioni a statuto speciale riescono
    abbastanza bene nella qualità delle prestazioni, anche se spendono troppo per
    ottenerla. A livello aggregato, la loro devianza risulta contenuta (soprattutto se
    paragonata ai casi più inefficienti), perché si tratta di realtà di dimensione geografica e
    popolosità medio-piccole. Il Trentino Altro Adige potrebbe liberare risorse per circa 227
    milioni di Euro/anno, la Valle d’Aosta per circa 36 milioni. Tuttavia, la ridotta scala
    aggregata non deve, per onestà e coerenza di analisi, far soprassedere sui dati di
    inefficienza di spesa a livello pro-capite e a livello percentuale;
    ⎯ Tutte le altre Regioni, Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Molise, abbinano consistenti gap
    di spesa (tutti a doppia cifra) a consistenti gap di qualità (rispettivamente, 75%, 61,3%,
    75,4%, 63,9%). A livello aggregato, esse potrebbero liberare 377 milioni di Euro/anno,
    301 milioni, 145 milioni, e 99 milioni. Ammontari di grandezza considerevole, con
    riferimento alla struttura del bilancio dello Stato e, ancor di più, del bilancio regionale.

  4. Articolo interessantissimo e condivisibile.
    E’ una versione contestualizzata e dettagliata del cap. 28 dei Promessi Sposi!
    Purtroppo il vizio di non vedere “il sistema” ma il singolo costo è rimasto come per le autorità spagnolesche della Milano del ‘600!
    Così si prendono soluzioni che generano ulteriori danni.

  5. Giordano

    Buongiorno sono un direttore di struttura (primario è un termine giurassico nei modi e nei contenuti e vediamo perchè). Cominciamo da Thomas. Gli stipendi a cinque zeri hanno un senso se alla sinistra degli stessi c’è qualcosa. Attualmente lo stipendio netto di un direttore è di circa 4000 euro/mese. Come si vede gli zeri sono 3 e il numero a sinistra non alto. In media direttori si diventa a 50 anni (io un pò prima perchè sono nato fortunato). Se si prende un qualsiasi laureato in altra disciplina con la stessa scolarità e grado di “successo” professionale (una CEO, Direttore vendite, Direttore acquisti, per lasciare perdere i notai e gli idraulici) lo stipendio di duplica-triplica. Ogni giorno il direttore ha a che fare con miriadi di persone che, in assoluta buona fede, gli chiedono di ridurre i costi ed aumentare la produttività. Il problema è che i “costi” non li gestisce il primario ma un’altra miriade di persone che svolgono attività “altre” la definizione delle quali di solito è in inglese e finisce in “ing” e che fanno girare tutto un mondo che con l’erogazione di salute non ha punto o nulla a che vedere. Oltre che attraverso la riduzione/polverizzazione di queste figure, peraltro, i costi in Sanità si potrebbero anche ridurre agendo su linee guida diagnostico-terapeutiche, per esempio scrivendole ed adottandole, al fine di evitare che per una diagnosi di patereccio flittenulare o di follicolite necrotizzante si facciano due TC, una RM e una PET l’ultima dei quali andrebbe invece fatta, ad esempio, per vedere dopo due cicli di chemioterapia se la stessa funziona evitando al paziente di fare 4-5 cicli inutili/dannosi. Il costo di un ciclo? Anche 10000 euro

  6. Giordano

    P.S. Sono medico da 25 anni. Da specializzando, in Piemonte, nel mio reparto (molto piccolo) c’erano un professore, 5 medici strutturati, 4 biologi, 12 specializzandi, 8 tecnici+ tre infermieri + ASA OTA ecc.ecc. Noi specializzandi litigavamo per lavorare (non c’era spazio). Adesso e qui (Lombardia) nel mio reparto (medio) siamo in due/tre medici. Detto che si può sempre migliorare, la razionalizzazione DEL PERSONALE SANITARIO si deve fare altrove, non qui…….

  7. Giordano

    Il problema è valutare di quali parametri si parla. Se produco mele il mio prodotto sono le mele il prezzo delle quali deve coprire i costi sostenuti per produrle e darmi un guadagno. In Sanità il prodotto qual’è? Quali le misure di outcome? Se non si valutano queste perchè non si conoscono o non si è in grado di valutarle, si vedrà solo una metà del mondo…..salvo poi di discettare di TUTTO il mondo, con ovvie parzialità. Se io faccio la procedura X che costa Y ma poi mi fa risparmiare Z può anche essere cost-effective……. I principali rumorosissimi assenti totali dalla gestione della Sanità? I medici……….@freedom

  8. freedom

    @Giordano

    Vuol dire che nelle Regioni che sforano la media e neppure garantiscono la qualità del servizio va tutto bene? O che, al contrario, le più virtuose non garantiscono nulla di comparabile?

  9. Giordano

    Vuole dire che ci deve essere una necessaria valutazione “a quattro mani” della spesa sanitaria. Adesso è a due e le due non sono “tecniche”. Io sono un medico che ascolta della manovra finanziaria di Monti, dell’euro, dello spread eccetera. Chiaramente “devo” avere una opinione in merito e me la formo con i miei limiti culturali ed agisco di conseguenza. Ma mai e poi mai vorrei e potrei fare il ministro dell’economia. Questa è la cosa che accade oggi in sanità. Managers, magari (ma non sempre) anche bravi, magari (ma non sempre) anche illuminati agiscono motu proprio per produrre una cosa della cui tecnicalità sono completamente all’oscuro. Risultati? Ad esempio la ASL di Napoli 1 che ha oltre un miliardo di buco. Ma allora era meglio quando era peggio? Forse si. (@freedom

  10. Stefano

    Ho avviato per anni sistemi informativi nella sanità – di quelli che tracciano tutto quanto si consuma. Ogni struttura ha una sua peculiarità dovuta a organizzazione, volontà della Direzione e persone, ma una costante esiste: nei primi due o tre anni dopo l’attivazione dei sistemi informativi si ha il massimo del risparmio, poi i benefici di carattere economico diventano minori e resta solo il miglioramento a livello di qualità e controllabilità del sistema complessivo (se questi obiettivi erano tra quelli conseguiti con il nuovo sistema).
    Questa è una caratteristica di tutti i progetti di adeguamento organizzativo e l’informatizzazione non sfugge a questa logica.
    La stessa introduzione dei DRG ha comportato un salutare sconvolgimento delle precedenti abitudini ed un salto organizzativo; ora però il beneficio è pressoché inesistente e resta – sempre più spesso, anche al nord – solo una malcelata tendenza a ridurre i costi diretti e immediati, spostando su altri centri di responsabilità il carico della fornitura di salute al cittadino.
    Speriamo che una rapida introduzione dei costi standard possa costituire l’evento scatenante il nuovo step di miglioramento del sistema, a maggior ragione se con questo nuovo strumento si riescono ad eliminare quegli innumerevoli rivoli di inefficienza e clientelismo che pervadono il sistema sanità.

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