27
Gen
2014

Quote rosa nelle liste elettorali? Il fine è giusto, il mezzo no.

Sulla legge elettorale tanto c’è da dire, tanto si è detto e tanto si dirà. Ma di fronte allo schieramento, compatto e trasversale, di senatrici e deputate che si sono sfilate le rispettive casacche politiche per convergere sull’importanza delle quote rosa nelle liste elettorali bisogna fermarsi un momento e riflettere. È un miracolo politico? No di certo. Anzi, dietro quella patina di giustizia e buonsenso che evocano termini come “uguaglianza” e “pari opportunità” si cela il perseguimento di fini giusti coi mezzi sbagliati: un classico del femminismo contemporaneo.

Scrivono le senatrici Fedeli (PD), Mussolini (FI) e Bianconi (NCD) che per rendere il principio della rappresentanza di genere nelle liste elettorali realmente efficace “è necessario introdurre un vincolo all’alternanza di genere uno a uno nelle liste e la medesima alternanza nei capilista”. Aggiunge la deputata Murer (PD) che “non basta garantire le candidature, bisogna garantire un equilibrio effettivo nella rappresentanza. Per questo ci vuole una norma stringente sull’alternanza di genere in lista o, nel caso delle preferenze, di una norma sulla doppia preferenza di genere. Poi ci vuole un pronunciamento chiaro sui capilista; anche in questo caso deve essere garantita alternanza e parità”. Un appello condiviso da numerose altre deputate di quasi tutti gli schieramenti politici.

Il punto di partenza del ragionamento, oltre che quel presunto senso di giustizia già citato, è l’art. 51 della Costituzione, secondo cui “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza” e “a tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Qui, tuttavia, si parla di pari opportunità a monte, cioè della possibilità di essere eletti senza discriminazioni basate sul sesso. E ci mancherebbe. Il risultato perseguito con le quote rosa (a maggior ragione se il meccanismo viene esteso a ogni singola lista elettorale e ai capilista), però, presuppone una certezza che, invece, è ingiustificabile.

Sul tema, peraltro, era già intervenuta la Corte Costituzionale quando, nella sent. 422/1995 sull’introduzione di quote elettorali nelle elezioni comunali, aveva dichiarato che “misure quali quella in esame (…) non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi: la ravvisata disparità di condizioni, in breve, non viene rimossa, ma costituisce solo il motivo che legittima una tutela preferenziale in base al sesso. Ma proprio questo, come si è posto in evidenza, è il tipo di risultato espressamente escluso dal già ricordato art. 51 della Costituzione, finendo per creare discriminazioni attuali come rimedio a discriminazioni passate.

Come spesso accade, la politica tenta di risolvere un problema culturale con strumenti normativi. Con risultati controproducenti, perché le donne elette dovranno (come già in parte accade) superare il sospetto che siano lì non per la loro competenza, ma per obbligo di legge. Di essere, cioè, solo dei tappabuchi e non, invece, esempi di coraggio, professionalità e buone idee politiche. Il punto è che le quote rosa sviliscono la meritocrazia e non risolvono il problema, anzi, lo alimentano. Per un esempio a livello locale, si veda cos’è successo nelle ultime elezioni provinciali di Trento.

Paradossalmente, le discriminazioni nascono proprio dai tentativi di tutelare determinate categorie sociali. Al giorno d’oggi, per fortuna, nessuno si sognerebbe di escludere determinate categorie dalla vita politica e di impedire loro di partecipare alle elezioni. Ma la conclusione non è che, essendo le donne il 51% della popolazione, vada riconosciuto loro diritto alla stessa rappresentanza all’interno del Parlamento. Perché, altrimenti, esigo che nelle liste elettorali vengano rappresentati anche il 2% di Musulmani, il 2.4% di omosessuali e il 4.8% di disabili italiani. E chi più ne ha più ne metta. Si tratta di categorie perfino più deboli di quella femminile, anche numericamente (e quindi politicamente): come mai nessuno propone quote loro riservate?

Twitter@glmannheimer

 

 

3 Responses

  1. Luca Giannoccaro

    Il solito, eterno, problema dell’egualitarismo, dove all’uguaglianza delle opportunità si preferisce l’uguaglianza dei risultati.

  2. ALESSIO DI MICHELE

    Ma poi sorgerebbe un atroce dubbio: un omosessuale mussulmano ed anche inabile come va inquadrato ?

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