2
Feb
2015

Quattro ragioni per restare prudenti sulle roboanti previsioni di crescita 2015

 

Due domande secche sulla situazione economica italiana, in questo inizio 2015. Ci sono segnali concreti di un inizio di miglioramento? Che cosa ci aspetta nel 2015, chi ha ragione tra le diverse stime di crescita dell’Italia appena rilasciate, che si allargano da un più 0,7% a tre volte tanto?

La prima domanda ha una risposta più agevole. Sì, segnali concreti di un ritorno faticoso al segno positivo iniziano a registrarsi. Il tasso di disoccupazione è sceso al 12,9% a dicembre, di 0,4 punti rispetto al mese precedente. Il tasso di occupazione è salito di 0,2 punti sul mese e di 0,3 punti sull’anno, al 55,7%. La disoccupazione giovanile è scesa dal 43% al 42% in un mese, mentre saliva da anni. I 94mila nuovi occupati di dicembre sono un buon segnale, ma ricordate che non pareggiano neanche i 113 mila persi tra ottobre e novembre. Il calo della disoccupazione e l’aumento dell’occupazione (non è detto che i due dati vadano insieme, la disoccupazione può scendere anche solo se aumenta il numero degli scoraggiati che non cercano lavoro), è un dato anche a sorpresa (sia pur da verificare per tipogie di contratto, per vedere quanto a tempo magari solo per rafforzare gli esercizi commerciali in vista di feste e saldi), perché ci si aspettavano una ripresa del lavoro solo a cominciare da febbraio-marzo, quando le imprese metteranno a frutto i maxi incentivi alle assunzioni deliberati in legge di stabilità, e il Jobs Act. Ma è anche vero che, proprio in attesa di queste misure, da mesi le imprese stavano a braccia conserte e non assumevano. Se poi dai dati quantitativi ci spostiamo agli indicatori qualitativi che misurano attese e fiducia, anche quelli virano in positivo. La fiducia dei consumatori italiani, fatto base 100 il 2005, è salita a 104 a gennaio 2015, il picco dal 2011, e la stessa cosa vale per la fiducia delle imprese, salita a 91,6 mentre stava a 81,6 nel 2012.

Altro paio di maniche è giudicare la stima di crescita complessiva del PIL italiano nel 2015. Effettivamente, le stime divergono di parecchio. Il Centro Studi Confindustria è molto positivo, stima il 2015 come un anno di svolta vera e profonda, giudicando in un +2,1% nel 2015 e in un +2.5% nel 2016 la “spinta aggiuntiva” rispetto un Pil che a fine 2014 registrava quasi mezzo punto di calo (che dunque va sottratto alla stima, e così facendo la crescita del Pil secondo Confindustria è intorno a +1,6% nel 2015). In questi stessi giorni, Prometeia ha stimato invece la crescita del Pil 2015 a un più 0,7%. Ed è la stessa stima del REF.

Prima di cercare di spiegare valutazioni così divergenti, una premessa. Ogni centro di ricerca ha un suo modello econometrico di previsione, costruito secondo assunti che “scontano”, per così dire, le variabili esogene internazionali ed endogene – reddito, consumi, prodotto, investimenti – diversamente a seconda dei princìpi a cui il modello si ispira, e di come vengono “tarate” le serie storiche inglobate. Questo spiega perché formalizzazioni matematiche diverse, con uno stesso input numerico di partenza, possano produrre risultati diversi.

Diciamo allora che nel 2015 siamo in presenza di fenomeni domestici su cui tutti più o meno concordano, ma di variabili internazionali che vengono diversamente apprezzate. Se scomputate i diversi fattori che concorrono alla “spinta” alla crescita 2015 italiana stimata da Confindustria, troverete un +0,6% prodotto dal calo del prezzo del petrolio, un +0,8% che deriva dal deprezzamento dell’euro, un +0,5% effetto delle stime di crescita del commercio mondiale e dunque del nostro export, e infine uno 0,2% derivante dall’andamento decrescente dei tassi a lungo termine sul debito pubblico italiano. Come vedete, si tratta di quattro fattori che derivano tutti da andamenti determinati a livello internazionale. Mentre sugli effetti aggiuntivi di occupazione creati dagli sgravi alle assunzioni e dal Jobs Act tutti più o meno concordano (più sui primi che sul secondo), le “molle” internazionali non vedono tutti d’accordo: spingono alla crescita, ma non è detto che lo facciano davvero in maniera tanto netta.

Vediamo perché su almeno 4 fattori le opinioni divergano.

Dai 114 dollari al barile di giugno scorso, il petrolio è sceso verso quota 46-47. Altro conto è dare per scontato che resterà a quota 45 nel 2015-16, e inoltre non va dimenticato che l’effetto di un deprezzamento tanto rilevante è moto attenuato nelle tasche di imprese e famiglie italiane da un 60 e più per cento di oneri rappresentati da Iva e accisa sul prezzo finale al consumo.

Ipotizzare un commercio mondiale che cresce al 4,5% annuo per due anni, rispetto al 3% e poco più nel 2014, implica coraggio: siamo reduci da due anni in cui le stime più positive di ogni inizio anno hanno dovuto fare i conti con diminuzioni nel corso dell’anno. I BRICS sono in crisi, il Brasile ha chiuso il 2014 raddoppiando al 6,7% il suo deficit pubblico e con un analogo segno meno alla sua bilancia dei pagamenti, la Russia se la passa malissimo per gli effetti delle sanzioni.

E’ in atto una gara planetaria al deprezzamento delle valute che fa risalire il dollaro, ma espone molto i paesi emergenti esposti per trilioni di debiti che in dollari sono denominati. L’instabilità finanziaria è molto accentuata da questi fenomeni e dall’asimmetria delle politiche seguite dalle maggiori banche centrali mondiali (vedi i ribassi “disperati” danesi, il cambio di segno repentiono sui tassi della banca centrale russa, la mossa svizzera..). Nessuno oggi è davvero in grado di dire come finirà la vicenda della Grecia, e che impatto avrà sulle curve dei tassi dei paesi eurodeboli in caso di mancato accordo.

E se ci spostiamo a esaminare gli effetti -sicuramente positivi – del QE deciso la settimana scorda dalla Banca Centrale Europea, non dimentichiamo che esso sgraverà in due anni fino a 120 miliardi di bonds dalla pancia delle banche italiane, liberando capitale per impieghi a famiglie e imprese, ma le banche italiane sono gravate da 330 miliardi tra sofferenze (180) e incagli (150), dunque non è affatto detto che potranno davvero avvalersene per trasferire integralmente il capitale liberatosi a garanzia di prestiti aggiuntivi, né è chiaro se, come e quando davverò partirà una bad bank di sistema sulla quale sembra che a palazzo Chigi si rifletta (ci sono molteplici rischi: aiuti di Stato, azzardo morale, ruolo di Cdp.)

Ecco spiegate le differenze. L’invito che facciamo è di aderire alla linea della prudenza. Inizia per gli italiani il cammino per recuperare il troppo prodotto e reddito perduto. Ma la strada sarà lunga e costellata di molti nuovi rischi mondiali. Seguite una bussola che quasi nessuno cita, quella della competitività. Tra il 2000 e il 2014 il CLUP, costo del lavoro per unità di prodotto, è salito del 15% in Germania, del 24% in Portogallo, del 28% in Francia, del 30% in Spagna, del 37% in Grecia, ma del 44% in Italia. Ce n’è tanta di strada da fare. Anche se la notizia è che, finalmente, potrebbe essere non più tutta in salita.

 

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2 Responses

  1. MG

    La competitività esiste ed è un fattore di crescita solo per le imprese che esportano all’estero…Ma queste quando hanno successo delocalizzano quindi con un basso impatto sul PIL interno. Nel mercato interno, con un tessuto stagnante fatto di clientele, banche clientelari e politica affarista, semplicemente non esiste oggi come non è mai esistita. Basta ascoltare..quando si sente dire “cosa facciamo delle banche in perdita….” cosa ne facciamo “delle Banche Popolari”..come cosa ne facciamo? Se ci fosse un reale mercato dei capitali non ci sarebbe certo bisogno di porsi queste domande. Le vere liberalizzazioni e privatizzazioni sono quelle connesse alle liberalizzazioni del mercato dei capitali e dei finanziamenti alle imprese, soprattutto medie e piccole. Quindi queste stratosferiche inefficienze saranno sostenute dal QE…non ridotte. e tanti saluti alle imprese medio-piccole. Per non parlare del passaggio di consegne generazionale” che è già in atto nelle imprese intaliane ed è fallimentare 8 volte su 10. Questo significa che per ogni giovane che se ne va all’estero..ci sono sempre piu aziende con 30, 40 anni di storia alle spalle che o chiudono o rimangono nelle mani della “vecchia guardia” che seppur gloriosa..non ha certo voglia di investire ed innovare. ma si limita a sopravvivere.
    La cescita è fatta di numeri certo..ma dietro ai numeri ci sono come sempre persone…e direi che il sentiment è negativo. E poi basta con sta storiella dei modelli econometrici…oramai chi crede piu alle storielle di Confindustria (che si dovrebbe chiamare oramai CONFPA vista la genia dei suoi iscritti)…. tutta roba da “Ministero della Disinformazione”. Basta confrontare i loro numeri con qualche previsione fatta da Investment Funds stranieri o da linee guida tipo Doing Business..In fondo cosa differenzia un imprenditore italiano da un investitore straniero? Perche se un investitore straniero vede L’italia oltre il 50-esimo posto come paese per investire soldi e fare business nel 2015…l’imprenditore italiano coglione dovrebbe mettersi due belle fette di prosciutto agli occhi e continuare a investire in Italia?…La chiamano..”globalizzazione”…e nemmno i “no-global” hanno avuto molto successo o proseliti…mi pare.

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