8
Gen
2014

Province? Abolirle è certo possibile, ma con raziocinio—di Luigi Oliveri

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo commento di Luigi Oliveri all’ultimo paper di Andrea Giuricin (PDF) sui potenziali risparmi derivanti dall’abolizione delle province. Domani pubblicheremo una ulteriore riflessione di Giuricin.

Non è scritto da nessuna parte che le province debbano necessariamente essere parte dell’assetto istituzionale dello Stato. Al netto, dunque, di indicatori di priorità, che suggerirebbero di agire prima sulla spesa incontrollata sia finanziariamente, sia democraticamente (in quanto enti non elettivi) da parte di consorzi, magistrato delle acque, Bim, comprensori, Aato vari, può certamente essere presa la decisione di eliminare un livello di governo.

E’ il modo di analizzare la questione e, soprattutto, il modo di procedere, che debbono essere approfonditi, allo scopo di evitare errori difficilmente riparabili.

Andrea Giuricin da anni propone l’eliminazione delle province, giungendo a stimare che, nella migliore delle ipotesi, si possa ottenere circa 2 miliardi di risparmi. Una stima analoga la compì chi scrive, nel 2011. Si parla, dunque, nel risultato più roseo, dello 0,25% del totale della spesa pubblica. Un segnale, ma nulla di più e di davvero decisivo per il riassetto dei conti, che dal 2015 debbono essere corretti di circa 50 miliardi l’anno.

Più verosimilmente, tuttavia, i risparmi effettivi sarebbero di molto inferiori. Nell’ultimo Briefing Paper “Eliminare le Province” dell’Istituto Bruno Leoni, il Giuricin abbassa la stima ad 1 miliardo. E probabilmente i risparmi effettivi sarebbero ancora minori sia in cifra assoluta, sia se correlati ad un fattore che fin qui nessuno ha stimato (colpevolmente, nemmeno il Governo): i costi del processo di eliminazione.

Ma, andiamo con ordine. Sul piano dell’analisi, il Giuricin come altri afferma la “necessità” di abolire le province, alla luce di una serie di considerazioni di natura finanziaria.

Le stime finanziarie proposte nel Briefing Paper sono corrette. Non appaiono, però, condivisibili le considerazioni connesse. Si mette in rilievo giustamente la drastica riduzione delle spese in conto capitale, affermando che le province “piuttosto che pensare a una vera e propria riorganizzazione, queste hanno deciso di tagliare completamente gli investimenti”.

Le cose non stanno esattamente in questo modo. La riduzione delle spese in conto capitale, è giusto aggiungere, non è frutto di una “decisione” adottata dalle province, ma è una conseguenza totalmente ascritta al patto di stabilità.

Vediamo perché. Il patto di stabilità si basa su un cervellotico sistema di saldi a competenza “mista”. Le amministrazioni debbono rispettare annualmente (per altro con parametri sempre modificati dalle leggi) certi obiettivi di risparmio, con una correlazione, purtroppo, diretta tra gli impegni contabili delle spese correnti (le spese che si prevede di effettuare, ma non ancora erogate per cassa) ed i pagamenti in conto capitale (le vere e proprie erogazioni dei pagamenti per appalti di opere).

Tale correlazione implica effetti totalmente perversi. Ad esempio, se si riduce la capacità di spesa corrente, si riduce simmetricamente la capacità di pagare in conto capitale; a questo effetto, si aggiunge l’ulteriore paradosso che ogni impegno di spesa corrente riduce la capacità di spesa in conto capitale.

Ora, le province hanno ridotto in modo drastico, come nessun altro ente, le spese correnti:

140108-Olivieri-03

(fonte: dossier Upi su base Siope 2012)

La riduzione della spesa corrente delle province è ulteriormente aumentata di circa un miliardo nel 2013, per effetto del d.l. 95/2013, convertito in legge 135/2012.

Come si nota, i comuni, individuati come esempio “virtuoso” dal Ministro Delrio, probabilmente perché espressione dell’Anci della quale è stato fino a pochi mesi fa presidente, la spesa corrente l’hanno aumentata, non diminuita.

Questo spiega perché la riduzione della spesa in conto capitale delle province risulti più elevata, di quella, comunque a sua volta molto elevata, dei comuni (confronto anni 2008-2012):

140108-Olivieri-01

(fonte: dossier Upi su base Siope 2012)

L’incremento della spesa corrente da parte dei comuni ha in parte consentito loro di ridurre il crollo della spesa in conto capitale, rispetto alle province.

Comunque, il tutto è effetto esclusivo delle regole del patto di stabilità, non di scelte discrezionali, cioè la volontaria scelta di rinunciare a realizzare le opere.

Il rischio, anzi, è che il transito delle funzioni provinciali verso i comuni e le regioni comporti una sorta di annacquamento della correlata spesa ed una sua ulteriore riduzione.

Facciamo una plausibile ipotesi riguardante l’edilizia scolastica. L’attuale testo del ddl Delrio prevede che essa sia assegnata ai comuni (con la contraddizione in termini della facoltà da parte di questi di riattribuirla alle province). Un comune quale ordine di priorità alle spese in conto capitale darebbe per le scuole? Privilegerebbe materne, nidi, elementari e medie, frequentate dal proprio elettorato, o le superiori, in gran parte caratterizzate da utenza al di fuori dell’elettorato?

Rispetto al quadro economico complessivo, le province hanno ridotto la propria spesa complessiva tra il 2008 e il 2012 di oltre il 21%:

140108-Olivieri-02

(fonte: dossier Upi su base Siope 2012)

Allora, cosa è avvenuto? Che il taglio di 2 miliardi sulla spesa delle province si è già verificato, per altro a caro prezzo, perché per le ragioni individuate sopra le conseguenze maggiori hanno riguardato gli investimenti.

Questo non vuol dire affatto che un’operazione di revisione degli assetti istituzionali non possa essere compiuta. Ma, chiarisce che si tratta non di una scelta di necessità, ma, al contrario, di una decisione esclusivamente discrezionale. Potrebbe essere effettuata, come no.

E ragioni di natura economico-finanziaria poste a giustificare, oggi, l’eliminazione delle province non se ne evincono, alla luce dei già pingui tagli che il legislatore ha loro imposto. Immaginare di ricavare un’ulteriore riduzione significativa della spesa dal semplice evento dell’abolizione delle province non è realistico. E lo ha spiegato molto bene la Corte dei conti, nella sua audizione in Commissione Affari Costituzionali alla Camera il 6 novembre scorso. Per altro, la magistratura contabile mette il dito sulla piaga del mancato computo dei costi. Cui è da aggiungere la totale assenza di un’idea di riforma della finanza e del sistema tributario locali, che dovrebbero assicurare agli enti subentranti alle province le entrate necessarie all’erogazione delle spese connesse ai servizi che transiterebbero. Inoltre, occorrerebbe una modifica drastica del patto di stabilità.

Il ddl Delrio, nell’attuale testo, si limita a prevedere l’assenza di effetti sul patto per gli enti subentranti alle province. Ma, il carico sulla contabilità nazionale non viene computato. Se si annullano gli effetti complessivi degli obiettivi di finanza pubblica delle province, chi coprirà le connesse maggiori spese? Non è dato saperlo.

Dunque, il problema non è tanto se sia necessario o meno eliminare le province, ma porsi la domanda se davvero ne valga la pena e, soprattutto, individuare un sistema serio per il subentro.

Attribuire le funzioni delle province ai comuni o alle loro unioni è evidentemente sbagliato, al netto delle poche funzioni, prevalentemente di natura sociale, che le province gestiscono attribuibili al livello comunale.

Occorre ricordare che le province gestiscono funzioni e servizi di natura sovra comunale, per le quali le mura municipali sono totalmente inadeguate: la gestione dei trasporti, dell’edilizia, del turismo, della formazione professionale e del lavoro, tra le altre. Basti una sola riflessione: l’offerta di lavoro congrua, il cui rifiuto implica la cancellazione degli ammortizzatori sociali, richiede, tra l’altro, che la sede di lavoro rientri in un raggio di 50 chilometri dal domicilio del lavoratore o che sia raggiungibile con mezzi pubblici entro 80 minuti. E’, come ovvio, un ambito totalmente al di sopra degli spazi territoriali comunali, tipicamente di area vasta, perché i mercati del lavoro sono territorialmente ampi, aree industriali o produttive che interessano tanti comuni, talvolta appunto distretti di intere province.

Per altro, è una contraddizione in termini immaginare che possa esservi un effetto di “razionalizzazione” dalla frammentazione delle funzioni attualmente svolte da 107 enti, verso 8100 altri, più 370 unioni di comuni e, solo in parte, altre 20 regioni.

Laddove si scegliesse di insistere per eliminare le province, l’unica soluzione razionale appare quella di attribuirne le funzioni solo alle regioni. Il processo in questo modo risulterebbe davvero di riduzione e semplificazione (da 107 a 20 enti), e molto più facile risulterebbe anche regolare le conseguenze sull’assetto finanziario e tributario. Il problema da molti posto, ma in realtà inesistente, del pericolo di crescita del costo del lavoro è stato risolto dall’attuale testo del ddl Delrio, dopo gli emendamenti: i dipendenti provinciali mantengono congelato il proprio trattamento economico e presso gli enti verso i quali sarebbero trasferiti si costituiscono fondi contrattuali su misura, per evitare confusioni con i fondi degli altri dipendenti e rischi di incrementi dei costi.

Da ultimo, merita un cenno di non condivisione l’analisi che il Giuricin propone riguardo ai servizi per il lavoro, considerati come una delle spese che, eliminate le province, potrebbero essere risparmiate, soprattutto se si affidasse ai privati la gestione del mercato del lavoro.

La considerazione di partenza è la stima Isfol secondo la quale i centri per l’impiego intermediano solo il 3,7% del lavoro, trovando nuovi lavori a circa 80.000 disoccupati, a fronte di una spesa complessiva di circa 700 milioni, per un costo a disoccupato di circa 9 milioni di euro.

Non siamo così sicuri che il liberismo pieno possa comportare né risparmi, né benefici ai lavoratori. Il privato è bene accetto, ma è sussidiario, nel senso che deve contribuire ad accrescere e migliorare la rete dei servizi pubblica, non ad azzerarla.

In Germania, paese certo non liberista ma preso ad esempio delle buone pratiche, negli uffici corrispondenti ai centri per l’impiego, operano circa 100.000 dipendenti a fronte dei circa 8.000 italiani, con un volume di spesa di 5 miliardi, a fronte dei 700 milioni in Italia. Il tutto, per altro, con un numero di disoccupati di 400.000 unità inferiore a quelli italiani. Il costo dei servizi per il lavoro in Germania a disoccupato, dunque, in Germania è in un rapporto di 5miliardi/2,8milioni, pari a 1.785 euro per disoccupato. In Italia, si tratta di 700 milioni/3,2 milioni, cioè una spesa di circa 219 euro per disoccupato.

Anche immaginando che in Germania i servizi pubblici per il lavoro siano in grado di intermediare molto meglio e di più che in Italia, per spendere meno dei circa 9000 euro per assunto intermediato dal pubblico stimati a carico dei servizi italiani, dovrebbero intermediare non meno di 600.000 posti di lavoro all’anno.

La realtà è che i servizi per il lavoro, che per altro ben potrebbero non essere incardinati nelle province, scontano, in Italia, evidenti problemi di eccessivo sottoinvestimento.

Il miglioramento dei servizi di ricollocazione non lo ottiene il mercato privato da solo. L’idea delle “doti” in Lombardia è una visione leggermente distorta del sistema. Si assegnano ai disoccupati circa 3-4 mila euro, che essi spendono, sotto forma di voucher, presso soggetti accreditati, pubblici o privati, a fronte dei servizi di assistenza alla ricollocazione che ricevono. Ma, la fonte di questi voucher è un finanziamento pubblico. Pertanto, i privati, in questo modello, comunque sarebbero finanziati dal pubblico. E, il tutto, senza attendere alle altre funzioni cui sono chiamati i servizi pubblici, che se computate porterebbero i costi puri di intervento, a disoccupato intermediato, molto al di sopra del voucher.

Insomma, anche con riferimento allo specifico ambito dell’intervento nel mercato del lavoro, il problema non appare tanto “province sì, province no”, bensì riformiamolo e riformiamolo bene, a partire dai giusti investimenti.

In conclusione, sgombrato il campo dalla effettiva “necessità” di eliminare le province, che non trova giustificazione in risparmi economici, già verificatisi e, dunque, presenti nel sistema, l’eventuale opportunità (che appare solo guidata da esigenze “comunicazionali” e di captatio benevolentiae) di eliminarle andrebbe valutata e gestita nel merito.

L’iniziativa del Ministro Delrio è totalmente inadeguata. Lo dimostra, del resto, la circostanza che il testo iniziale del disegno di legge di svuotamento delle province è stato totalmente stravolto dalla Commissione Affari costituzionali alla Camera, nel tentativo, mal riuscito tuttavia, di rimediare alle troppe lacune dell’iniziativa.

Essa sconta una serie di difetti:

  • vuol svuotare le province, ma configura le città metropolitante esattamente come le province medesime, con qualche funzione in più;
  • predica l’eliminazione del livello intermedio di governo tra regioni e comuni, eppure individua espressamente la necessità dell’esistenza di un ente di “area vasta”;
  • non delinea in alcun modo come distribuire le funzioni provinciali tra regioni, comuni e unioni di comuni, demandando, nel testo emendato in Commissione, a future leggi dello Stato e delle regioni il completamento dell’assetto, col risultato di lasciar assoluta incertezza delle competenze, della titolarità delle entrate e della responsabilità delle spese, per un tempo indeterminabile;
  • non modifica l’ordinamento tributario e finanziario locale;
  • lascia fuori dal riordino, per espressa volontà, gli uffici periferici dello Stato;
  • lascia comunque alle province svuotate una serie di funzioni e competenze “fondamentali”, senza nemmeno indicare come e chi dovrebbe subentrare a gestirle, laddove le province dovessero essere successivamente definitivamente abolite dalla Costituzione, senza, dunque, curarsi nemmeno di un diritto transitorio.

Che si tratti di un’iniziativa episodica, non meditata e caotica lo dimostra la corsa, partita nei giorni scorsi, alle città metropolitane, che dalle 10 iniziali, sono passate già a 18.

Insomma, al di là dell’opportunità o meno di abolire le province (e sulle questioni di opportunità l’iniziativa politica è libera, mentre le teorie possono confrontarsi ad libitum), il tema vero è “come” procedere.

Svuotare per poi abolire le province, non è un gioco da ragazzi, non è liquidare un negozio. Occorrerebbero analisi economiche, finanziarie, tributarie, norme di diritto transitorio, attribuzioni graduali delle competenze agli enti, insomma tempi certi, ma non brevi.

Sembra, invece, evidente che si stia procedendo al contrario: intanto si decide di sopprimere e, senza nemmeno avere la vigenza dell’abolizione, la si esegue con uno svuotamento senza alcun diritto transitorio, lasciando a posteriori, e per altro a soggetti terzi perché il Governo analisi finanziarie e di impatto non ne ha compiute, le valutazioni sugli effetti economici.

Questo appare il vero punto critico del modus operandi del Governo. Sulla valutazione positiva o negativa dell’abolizione delle province ci si appassiona, ma non è il vero problema.

Ciò che è da evitare ad ogni costo è quello che sta accadendo in Sicilia, dove un’abolizione ancor meno meditata di quella proposta dal Ministro Delrio ha fatto sì che alle province siciliane non giungano più i trasferimenti statali e regionali e le province non possano più assicurare (provincia di Messina) ai disabili il trasporto nelle scuole di ogni ordine e grado, oppure (provincia di Siracusa) ai disabili sensoriali il servizio di assistenza socio didattica a scuola.

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7 Responses

  1. Rocco Todero

    Credo che la questione fondamentale circa l’allocazione delle funzioni amministrative che la legge indicava in capo alle province sia la seguente.
    L’art.118 della Costituzione vuole che le funzioni amministrative siano attribuite in prima battuta ai comuni e che solo quando sia necessario assicurarne l’esercizio unitario il legislatore possa conferirle alle regioni o allo Stato sulla base di principi di sussidiarietà,differenziazione ed adeguatezza. E’ necessario,cioè, verificare non già in generale ma per ogni singola funzione amministrativa se la sua allocazione a livello regionale piuttosto che comunale possa garantirne un esercizio che meglio assicuri il raggiungimento degli obiettivi indicati dai criteri di sussidiarietà ed adeguatezza.
    Per potere arrivare a delle conclusioni sorrette da un qualche fondamento,però, sarebbe necessario disporre di valutazioni approfondite sorrette dalla scienza
    dell’amministrazione, dalla scienza economica e dalla statistica che esplichino le ragioni pratiche,in termini di efficienza nell’esercizio della funzione amministrativa e di soddisfazione per l’utente cittadino, del perché sia preferibile assegnare una funzione amministrativa ad uno piuttosto che ad un altro livello di governo,tenendo sempre presente la necessità di fare conto delle indicazioni e delle priorità di cui all’art.118 Cost.
    Da questo punto di vista il dibattito mi sembra un po’ troppo in ritardo.
    Saluto
    Rocco Todero

  2. Al Cos

    In merito ai servizi per il lavoro, il costo da considerare non deve essere per disoccupato, bensì per occupato, perché è qui che si vede l’efficienza.
    Affidando a privati la gestione dei centri per l’impiego, con sovvenzioni pubbliche per ogni nuovo occupato, oltre a ridurre i costi di gestione provinciale, si andrebbe ad aumentare l’efficienza della “gestione” del mercato del lavoro, mettendo in concorrenza le varie agenzie per il lavoro/centri per l’impiego.

    Leggendo la spiegazione del Dott. Giuricin e il commento del Dott. Olievieri, mi viene da pensare che la miglior manovra sarebbe quella dell’accorpamento delle province, con la drastica diminuzione di queste, e conseguente riduzione di costi (anche del personale, non ho capito perché deve essere per forza un tabù), evitando città metropolitane e simili.

  3. Rocco Todero

    Credo che la questione fondamentale circa l’allocazione delle funzioni amministrative che la legge indicava in capo alle province sia la seguente.
    L’art.118 della Costituzione vuole che le funzioni amministrative siano attribuite in prima battuta ai comuni e che solo quando sia necessario assicurarne l’esercizio unitario il legislatore possa conferirle alle regioni o allo Stato sulla base di principi di sussidiarietà,differenziazione ed adeguatezza. E’ necessario,cioè, verificare non già in generale ma per ogni singola funzione amministrativa se la sua allocazione a livello regionale piuttosto che comunale possa garantirne un esercizio che meglio assicuri il raggiungimento degli obiettivi indicati dai criteri di sussidiarietà ed adeguatezza.
    Per potere arrivare a delle conclusioni sorrette da un qualche fondamento,però, sarebbe necessario disporre di valutazioni approfondite sorrette dalla scienza
    dell’amministrazione, dalla scienza economica e dalla statistica che esplichino le ragioni pratiche,in termini di efficienza nell’esercizio della funzione amministrativa e di soddisfazione per l’utente cittadino, del perché sia preferibile assegnare una funzione amministrativa ad uno piuttosto che ad un altro livello di governo,tenendo sempre presente la necessità di fare conto delle indicazioni e delle priorità di cui all’art.118 Cost.
    Da questo punto di vista il dibattito mi sembra un po’ troppo in ritardo.
    Saluto
    Rocco Todero

  4. Francesco Forti

    Se esaminiamo la questione sul piano della situazione attuale (Stato centralizzato con struttura decentrata) si puo’ abolire qualche cosa ma i risparmi sono minimi. Si tratta piu’ che altro di confondere l’elettorato (armi di distrazione di massa) dai veri problemi, che sono la spesa dello Stato e delle Regioni.

    Se invece esaminassimo la questione da una prospettiva federalista (futuro stato federale) le cose cambiano parecchio, perché la sussidiarietà implica che si parta dai comuni, si prosegua verso entità intermedie (distretti, contee) e si giunga allo stato membro. Il quale non è disegnato a tavolino da urbanisti o paesaggisti oppure sulla base di formula che considerino popolazione e superfice ma deve essere autodeterminato dalla popolazione locale, sulla base della consapevolezza dei compiti e delle risorse economiche disponibili per la loro esecuzione.

    Ora le due cose mi sembrano incompatibili. Se eliminano le province oggi per ricrearle domani, in un futuro federale, ci facciamo la figura degli incoerenti o di coloro che propongono di scavere buche per poi riempirle.

    Naturalmente se non si auspica un futuro federale, non ci sono problemi. Ma io da federalista farei delle province il punto centrale, lo stato membro, sulla base del modello dei piccoli territori. Un pensiero piu’ apprfondito lo avevo espresso qui: http://noisefromamerika.org/articolo/abolire-province-si-no

  5. Francesco_P

    Il nodo da affrontare non è l’esistenza o meno delle Province, bensì quali sono i compiti svolti dai diventi Enti territoriali. Infatti la semplice eliminazione delle Provincie non porta ad alcun risparmio se le funzioni attuali sono distribuite diversamente. A questo dobbiamo aggiungere gli Enti non elettivi con elevate capacità di interferenza, se non di vero e proprio blocco, sui processi decisionali che riguardano il territorio.
    Anche l’aspetto quantitativo rappresenta una questione rilevante perché al di sotto di una certa “massa critica” l’Ente territoriale non è in grado di svolgere i sui compiti. Le 20 Regioni e la Provincia autonoma di Bolzano (con compiti equiparabili a quelli di una Regione) sono decisamente troppe. Così pure i Comuni sono troppi e, spesso, così piccoli da non consentire una gestione efficiente della cosa pubblica.
    E’ chiaro che così come sono oggi le Provincie sono inutili. In un contesto di seria riforma federalista (Federazione, Stati, Cantoni, Municipalità) in cui le funzioni e le responsabilità sono correttamente ripartite le cose cambierebbero radicalmente. Non si avrebbe certo un aggravio di compiti e di costi, bensì il contrario come dimostrano gli esempi della Svizzera o quelli più lontani degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia.

    NOTE
    1) Quanti dono i Comuni: al 1/1/2014 sono 8072 (fonte ISTAT http://www.istat.it/it/archivio/6789). Di questi: 53 hanno meno di 100 abitanti, 1893 ne hanno fra 100 e 999, 3735 fra 1.000 e 4.999, 1183 fra 5.000 e 9.999, 1067 fra 10.000 e 49.999 e, infine 141 hanno più di 50.000 abitanti.
    2) Il più piccolo Comune d’Italia è Pedesina con 30 abitanti. Ecco l’amministrazione di questo paesino ( fonte http://www.comune.pedesina.so.it/mainPortal/index.php?option=com_content&task=view&id=361&Itemid=744 )
    Sindaco
    – Maxenti Valentino
    Vicesindaco
    – Ruffoni Fabio
    Assessori
    – Fantazzini Vincenzo
    – Ruffoni Fabio
    – Bassani Miriam
    – Guido Vitali
    Consiglieri
    – Fantazzini Vincenzo
    – Cogliati Giorgio
    – Vitali Guido
    – Brisa Cisella
    – Bassani Miriam
    – Tarabini Giulia
    – Rogantini Cinzia
    – Gatti Maurizio Emilio Aldo
    – Dimo Renzo
    – Ruffoni Fabio
    – Maxenti Sergio
    – Berta Elisa
    Segretario
    – Gusmeroli Franco

    Anche se nessuno ci guadagna da questi incarichi politici, mi sembra il classico Ufficio Complicazione Affari Semplici.

  6. Giovanni Bravin

    Sono ansioso di vedere livornesi e pisani accoppiati d’ufficio! Attenderò di leggere la notizia sul Vernacoliiere (Livorno)….

  7. Francesco Forti

    A proposito dei piccoli comuni come Pedesina, anche in Svizzera ci sono (2700 comuni nella piccola svizzera, grande circa come la Lombardia) ma non hanno sindaco, esecutivo e legislativo. Semplicemente esiste solo l’organo democratico di base: l’Assemblea di tutti i cittadini. Si riuniscono ogni tanto tutti e decidono, in stile Democrazia Diretta. Sopra certe dimensioni si eleggono rappresentanti per il potere esecutivo e un sindaco e sopra altre dimensioni si elegge anche il consiglio comunale.

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