27
Mag
2015

UberPop: la colpa non è dei giudici, ma dei politici

Ieri, come noto, il Tribunale di Milano ha accolto (sia pure parzialmente) il ricorso di alcune società e sindacati di tassisti, che chiedevano di “bloccare” il servizio UberPop su tutto il territorio nazionale, in quanto questo determinerebbe una concorrenza sleale al servizio di radiotaxi. Come prevedibile, l’ordinanza ha scatenato reazioni e polemiche feroci, su alcune delle quali è il caso di fare chiarezza. Una cosa è certa: l’avversione dei tassisti ai servizi di Ncc offerti dalle nuove tecnologie è una forma di luddismo, come tale inevitabilmente destinata a soccombere, prima o poi, sotto il peso del progresso. Non sarà un giudice e nemmeno una legge a fermare la naturale evoluzione delle cose: se non sarà Uber oggi, ad avere la meglio, sarà qualcun altro domani. Read More

25
Mag
2015

Grexit: meglio regole concordate di uscita, le monete-prigione basate su eccezioni non reggono

La Grecia non pagherà 1,6 miliardi di euro ch deve al Fondo Monetario Internazionale, in scadenza a giugno. Ci risiamo. Già a maggio, hanno detto che non lo avrebbero fatto. Ma ora il nodo viene al pettine. E si capirà se l’euroarea vuole per davvero trattare il caso greco per quello che è, o se continua in un balletto di finzioni molto rischioso, visto che rischia di finire con una rottura traumatica dell’euro che nessuno dichiara di volere. Ma che si diffonderebbe, come rischio di contagio, in primis sull’Italia. E addio a quel punto ai tassi bassi si cui il governo fa così tanto affidamento, e scommettendo su quali ha rinviato la spending review.

In realtà, sommando l’allarme Grecia al voto locale in Spagna e a quello per le presidenziali in Polonia, le fratture sul rispetto delle regole europee si allargano e non si attenuano. Invece di far finta di niente e lasciar procedere gli elettorati all’ira e alla diffidenza, ci vorrebbe una grande decisione politica: o si consente di uscire dall’euro a chi non ne sopporta o riconosce le regole con una procedura controllata che ne minimizzi per tutti i danni, oppure accettare le condizioni greche non è un’eccezione, significa nuove regole per tutti. Personalmente, credo che la prima ipotesi sia ormai meglio della seconda. Vedo che il più dei media ritiene ancora che i greci alla fine si piegheranno, che è tutta una commedia. Se anche fosse così, sarebbe peggio che affrontare seriamente il problema.

Per oltre 4 mesi, l’euroarea non ha preso sul serio Tsipras e Varoufakis, il premier e il ministro dell’economia che hanno vinto le elezioni in Grecia promettendo con Syriza “ci faremo abbattere ancora il debito”. Si sono sprecate le ironie beffarde, quando si è capito che le richieste europee alla Grecia avanzate a febbraio rimbalzavano su un muro di specchi. Si è detto scritto che Varoufakis fosse un narciso mezzo matto, invece che un determinato radicale statalista come appare a chi lo legge da anni, e che a un certo punto bastasse chiederne la testa perché Tsipras si spaventasse. Storie. Il governo greco ha giocato la partita che aveva indicato sin dall’inizio: non pagheremo quanto dobbiamo pagare quest’anno e nei prossimi, tagliateci ancora il debito, come già avete fatto per oltre il 60% del valore tra 2011 e 2012. Già in vista della rata dovuta al Fondo monetario il 12 maggio scorso, Atene aveva detto che non avrebbe pagato. Lo ha fatto solo strappando all’ultim’ora di utilizzare i suoi diritti speciali di prelievo che ne rappresentano la quota nel capitale del Fondo. Quel capitale di riserva è stato speso. Ora la prossima scadenza è il 5 giugno, e in 4 rate entro il 19 Atene deve al FMI 1,6 miliardi di euro. E Atene fa esattamente la stessa cosa di un mese fa. Ha detto che non paga, non ci pensa neanche.

E’ un messaggio per i ministri delle Finanze del G7 che si riuniscono a Dresda, sotto la presidenza di turno tedesca, il 27-29 maggio, in preparazione del G7 coi capi di stato e di governo, il 7-8 giugno al castello di Elmau. La Grecia è riuscita in quel che voleva: porre il problema all’euroarea della rottura traumatica della moneta comune, dividere la Ue dal Fondo monetario, ed evidenziare che Washington non la pensa affatto come i falchi europei, timorosa che Atene scivoli verso Mosca.

Il punto non sono i 1600 milioni di euro che deve al Fondo a giugno. Entro il 2015 Atene deve ripagare oltre 25 miliardi, tra FMI e BCE e titoli in scadenza. Degli oltre 320 miliardi di debito pubblico greco attuale, la Grecia è creditrice per 131 all’EFSF, 27 alla BCE , 53 a prestiti bilaterali con gli euromembri stessi, e se sommiamo il dovuto alla BEI la quota europea del debito greco arriva a quasi il 70% del totale. Un 9% è in mano al FMI, solo il 17% a privati, il restante 3% sta in pancia alla banca centrale greca. Sommando l’esposizione italiana diretta bilaterale, quella per quota parte in EFSF, Bce, BEI e Fmi, arriviamo a 40 miliardi di euro, subito dopo Germania e Francia che rischiano 90 e 60 miliardi. Per noi si tratta di meno del 3% del Pil, per i piccoli euromembri il costo del default greco – se fosse totale – sta tra il 4 e il 5% del pil. Naturalmente, costi nazionali e percentuale sul PIL di ciascuno cambia a seconda del meccanismo di eventuale ritrutturazione del debito cioè di “default controllato”: se si adottasse una rimodulazione pluridecennale delle scadenze, che già sono state iperdiluite 3 anni fa, l’inflazione rialzatasi nel frattempo farebbe la differenza.

Syriza ha sempre detto che, dopo l’abbattimento di valore di oltre il 60% del debito deciso nei tre salvataggi precedenti della Grecia dal 2011 ad oggi che hanno pelato i titolari privati del debito, chiedeva all’Europa che ne detiene oggi il 70% di procedere a un ulteriore abbattimento della metà, mentre avrebbe pagato i ratei in scadenza al FMI. Finora Fmi e UE non hanno accettato. L’Europa ha creduto che Atene si piegasse abbassandole l’obiettivo di avanzo primario a poco più di mezzo punto di Pil l’anno, ma per il resto doveva procedere con privatizzazioni, contrattazione aziendale, niente passi indietro sulle pensioni.

Syriza non ci pensa neanche. Al comitato centrale di Syriza tenutosi sabato e ieri e dove l’ala sinistra ha picchiato duro, Tsipras ha ribadito che le privatizzazioni ancora da deliberare sono ferme, che le riassunzioni pubbliche vanno avanti, che la contrattazione nazionale e non aziendale è un caposaldo intoccabile. Varoufakis e Tsipras hanno chiesto di poter tassare le transazioni bancarie, quando le banche greche da gennaio in percentuale hanno perso oltre il doppio dei depositi di quanto capitò in Argentina prima che saltasse in aria nel 2000. Hanno promesso assunzioni a tempo dei turisti per la lotta all’evasione turistica. Non cambiano però la Costituzione, che esenta dalle tasse gli armatori.

Il FMI due settimane fa ha detto alla UE che è inutile proseguire nella finta trattativa, non avrebbe più dato ai greci altri soldi per farsi pagare le rate in scadenza. Tocca insomma alla Ue dare una risposta definitiva ai greci. Se si resta sulla linea del piano di riforme o niente, la Grecia va in default, perché gli 80 miliardi della linea straordinaria di finanziamento della Bce garantite ad oggi alle banche greche non bastano per tenerle in piedi. Le vie intermedie di cui si parlato finora sono mezze misure: tipo l’autorizzazione a pagare salari pubblici e pensioni con IOU cioè dei “pagherò”, che sono l’equivalente degli “assegnati” emessi dalla rivoluzione francese la cui svalutazione portò al Consolato di Napoleone. Come in tutti i casi della storia in cui vi si è fatto ricorso, i pagherò di Stato come strumenti sostitutivi della moneta perdono verticalmente valore nel giro di poco tempo, rivelando subito rispetto al valore nominale la fascia di svalutazione rispetto alla moneta forte di cui è stampato sul pezzo di carta il valore, che però lo Stato non detiene per pagare sul serio.

La domanda diventa: dobbiamo premiare ancora i greci, separando le loro responsabilità da quelle dei governi pazzi che li hanno portati in queste condizioni? Ma perché allora Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda si sono massacrati di manovre, per evitarlo? Oppure, come vorrebbero altri: che cosa vogliamo davvero, per abbattere ancora il debito greco e scrivere una pagina nuova delle regole all’euro mancanti, quella della solidarietà ai più deboli?

Se la Grecia esce dall’euro i mercati scommetteranno che anche altri lo faranno. E’ su questo, che punta il ricatto greco (anche se non della parte radicale di Syriza, che punta proprio a uscire e a svalutare massicciamente come da noi vorrebbero Salvini e Grillo, urlando che la colpa è della Ue per il massiccio depauperamento di risparmi e patrimoni che avverrebbe nei successivi due anni). Ma è impossibile credere che darla vinta a Syriza non porti a seguire una frana sulla stessa china, in Italia in Spagna e altrove. Come dimostrano i risultati elettorali europei.

Chi scrive preferirebbe che l’euroarea facesse capire che una moneta è comune solo per chi la sceglie e ne rispetta le regole. Le asimmetrie di produttività troppo forti rendono possibile una moneta comune o aprendo totalmente i mercati dei beni, dei servizi e del lavoro, consentendo che funzionino come vasi comunicanti delle curve di costo e di prezzo, oppure con mega programmi di assistenza ai paesi meno forti. In assenza di entrambi le asimmetrie restano, anzi si aggravano nelle crisi. Meglio allora decidere procedure di uscita concertate. E se l’Italia dovesse un domani decidere anche lei che vuole tornare alla via greca, come sperano Salvini, Grillo e tanti altri, lo faccia pure. Altri italiani saprebbero semplicemente dove andarsene. Le monete-prigione non esistono, nella storia. O le si usa per quel che possono essere, oppure sono loro a liberarsi di noi, lasciandoci traumaticamente a monete deboli. Quelle fortemente volute da politici che fondano l’idea di sovranità nazionale su inflazione e svalutazione, pregustando di essere a capo di governi che decidono vincoli sui capitali, risparmi, banche e patrimoni. Come avveniva nella da tanti rimpianta Italia degli anni Settanta…

22
Mag
2015

L’inversione contabile del tesoretto

Quod erat demonstrandum: la Commissione europea ha bocciato l’estensione del meccanismo di “reverse charge (o inversione contabile) per il pagamento dell’IVA sulle cessioni di beni verso supermercati e altri operatori della grande distribuzione organizzata (GDO), prevista dal governo nell’ultima legge di Stabilità. Una bocciatura che, a ben vedere, era tutto fuorché imprevedibile. Read More

22
Mag
2015

La banda ultralarga nel modello superfisso

Hanno fatto giustamente rumore, nei giorni scorsi, i commenti cinguettati da Raffaele Tiscar, vice segretario generale di Palazzo Chigi e tra i più influenti consiglieri del premier in materia di banda larga. Chiosando un’immagine che evidenziava la presenza di diversi armadi di strada in una via di Novara, Tiscar ha deprecato la concorrenza infrastrutturale come fonte di moltiplicazione dei costi, forse a beneficio dei produttori di apparati, ma certamente a danno degli utenti.

All’interno di una cabina di regia che si direbbe troppo affollata per produrre un’elaborazione coerente – basti pensare alla battaglia delle bozze che accompagna ogni passo del governo sul tema, questo sì esempio di una proliferazione dannosa – Tiscar è l’alfiere di un dirigismo sincero, faticosamente contenuto dai suoi interlocutori e, soprattutto, dai vincoli comunitari all’intervento pubblico.  Fosse per lui – non crediamo di lavorare troppo di fantasia – le reti le farebbe lo stato, punto; non potendo arrivare a tanto, Tiscar si limita a minacciare la supplenza dell’esecutivo in caso d’inerzia del mercato e a rimarcare che “è il piano industriale del governo che orienta quelli degli operatori, e non viceversa” – posizione che collide con un altro recente cinguettio, questo confezionato dal presidente del Consiglio.

A un livello epidermico, l’intervento di Tiscar può meravigliare: ogni investimento nelle reti di telecomunicazioni dovrebbe essere salutato con entusiasmo da chi ha fatto dello sviluppo delle infrastrutture digitali nel nostro paese la propria missione. A ben vedere, però, si tratta di una reazione spiegabile e, anzi, rivelatrice di un certo approccio all’economia e all’economia delle reti in particolare: quello del modello superfisso, per usare l’accattivante formula di Sandro Brusco.

In questa cornice, sono innanzitutto fissi i bisogni. Nel nostro caso, non si dà nemmeno la fatica d’individuarli, perché la Commissione Europea si è presa la briga di dettagliarli per noi, con gli obiettivi dell’Agenda digitale. Siamo proprio sicuri che ci servano esattamente 100 Mbps per il 50% degli utenti entro il 2020 e non, per dire, 80 Mbps per il 75% degli utenti? Naturalmente, nel modello superfisso non c’è iato tra consumi e bisogni, perché questi vanno soddisfatti comunque, indipendentemente dai relativi costi e benefici – cioè indipendemente dai segnali di prezzo. E anche i metodi di produzione sono fissi: per i 100 Mbps occorre la fibra profonda; poco importa se, grazie all’evoluzione delle tecnologie esistenti, un risultato analogo si può ottenere con architetture alternative, in tempi e a costi ridotti, e ferma restando la possibilità di scalare l’investimento nel momento in cui la domanda lo rendesse necessario – il che non avverrà comunque: non abbiamo detto che i bisogni sono fissi?

Da ciò discendono alcuni corollari: che gli operatori investano a prescindere dal contesto industriale e competitivo, che l’ammontare complessivo dei loro investimenti sia fisso, che la disponibilità di spesa degli utenti non abbia alcun peso nel determinarlo, che ogni euro investito nelle architetture considerate subottimali sia un euro buttato, così come è uno spreco ogni euro investito in aree già servite dalla banda ultralarga. Capirete che, a questo punto, il piano dell’analisi e quello della prescrizione cominciano a confondersi; del resto, i presupposti del modello superfisso richiedono una certa disponibilità a piegare le evenienze della realtà alle esigenze della teoria. E se la realtà non si adegua, peggio per la realtà.

Tuttavia, la nostra esperienza del mondo economico va in un’altra direzione: gli incentivi contano e tocca al sistema dei prezzi veicolarli per permettere agli agenti economici di orientare la propria condotta. Questo è possibile solo se la concorrenza non è limitata per decreto. Sarebbe interessante indagare sulla storia dei cabinet di Novara, ma una semplice verifica su Google Maps ci fornisce qualche elemento in più. Ancora nel 2011, si trovava in quel punto un solo armadio rilegato in rame: in pochi anni sono comparsi nuovi armadi raggiunti dalla fibra e anche quello preesistente è stato adeguato, presumibilmente in risposta all’iniziativa dei concorrenti. Questo sviluppo avrebbe avuto luogo senza concorrenza infrastrutturale?

Lo sconforto del burocrate di fronte alla competizione è comprensibile. Nel mercato dei suoi sogni, gli operatori si limitano a seguirne le indicazioni – infallibili e insostituibili, perché il modello superfisso impone “solo” di ripartire gli investimenti (fissi) per soddisfare i bisogni (fissi). Nei mercati reali, investimenti e bisogni mutano costantemente e la concorrenza permette di approssimarne il punto di caduta. Si tratta di spingere più in là la frontiera del possibile – in termini di tecnologie, di servizi, di prezzi, di investimenti – sotto il pungolo della competizione e il giudizio inappellabile del consumatore.

La concorrenza come strumento di conoscenza e di scoperta in mercati dinamici. Nessuno dubita che tale logica funzioni nel mercato dei servizi – non si vede perché il mercato delle infrastrutture dovrebbe fare eccezione. La scelta al margine non è, in altre parole, tra investimenti organizzati e ben distribuiti e investimenti confusi e ridondanti; bensì tra la presenza e l’assenza di investimenti. Tanto quanto il piano è rassicurante e prevedibile, la concorrenza è sfuggevole e sorprendente. Ma, lungi dall’essere un insiderabile elemento di disturbo, è un lievito essenziale di sviluppo.

21
Mag
2015

Fondi Pensione, opportunità da cogliere e tentazioni da evitare—Marco Abatecola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Abatecola.

Il Decreto Ministeriale sul Credito di Imposta per gli investimenti in economia reale, effettuati dai Fondi Pensione e dalle Casse Privatizzate, sarà probabilmente poca cosa in termini di reali risparmi ma potrà comunque rappresentare un punto di svolta per il sistema. Non tanto per gli ottanta milioni di euro destinati allo sconto della tassazione sui rendimenti maturati, quanto per il senso di un provvedimento che non ha delimitato il campo delle asset class che ne potranno beneficiare, ampliando invece in maniera significativa l’universo investibile. Ricomprendendovi in sostanza qualsiasi strumento, quotato e non, che sia collegato all’economia reale e sia mantenuto in portafoglio per almeno cinque anni o, nel caso di cessione, ne sia comunque reinvestito il corrispettivo entro trenta giorni in analoga attività. Read More

20
Mag
2015

La narco-economia del calcio, con regolatori conniventi

Quanti anni sono, che i tifosi italiani sanno con assoluta certezza che, a campionati di calcio acquisiti o quasi, scattano pubblicamente le indagini delle procure e delle diverse autorità regolatrici su ipotesi sempre più vaste di calcio-scommesse e illeciti societari? Si è cominciato dagli anni Ottanta. Da oltre un decennio, poi, le indagini scattano precise come orologi svizzeri: per dare il tempo, a campionati fermi nella pausa estiva, di graduare le sanzioni ai club e ai loro dirigenti alla ripresa del campionato successivo. Non è il segno che ovunque, nel calcio come altrove, ci sono mele marce e gente senza scrupoli. E’ la foto di un sistema di cui sappiamo da molti anni la malattia, che non si è voluto curare. Perché di mezzo c’è la politica, e siamo l’unico paese avanzato in cui anche la tv è politica.

Quest’anno è peggio del solito. Non solito ieri la maxi retata con 50 arresti per maxi combines nelle serie minori, falsando i risultati delle partite per farci soldi a palate con le scommesse. Non solo l’ennesimo pezzo del logoro sistema federale del calcio che va in pezzi, con le sciagurate parole del presidente Belloli della Lega Dilettanti contro “le 4 lesbiche” del calcio femminile. C’è pure una maxi indagine che va al cuore del meccanismo finanziario del sistema calcio italico, e che ipotizza un patto occulto tra Lega Calcio, Sky e Mediaset nell’attribuzione dei diritti tv, a fine giugno 2014. E’ un’indagine gravata da un’enorme ipocrisia: perché a dare l’ok alla spartizione a tavolino, che avvenne allora sotto gli occhi di tutti violando il bando e le risultante della gara che era avvenuta, fu insieme all’Agcom anche l’Antitrust che oggi indaga e manda la Finanza a perquisire e sequestrare. Che fosse una brutale intesa anti-concorrenziale, lo denunciarono invano in quegli stessi giorni vasti settori dei media, compreso chi scrive. Mentre ora si procede sulla scorta di una dichiarazione di Lotito, che si è vantato di aver messo allora d’accordo Murdoch e Berlusconi: una cosa che avvenne sotto gli occhi di tutti, e per altro magari con il concorso del presidente di Lega Calcio Beretta, quello che secondo Lotito “conta zero”. Che cosa avvenne, un anno fa?

Che per il triennio 2015-2018 la Lega Calcio decise di incassare 945 milioni a stagione per i diritti tv, con un accordo Sky-Mediaset: la prima pagava e paga 572 milioni per tutte le partite sul satellite, il Biscione 373 per le 8 big sul digitale. Era il risultato della gara che era stata bandita, e che aveva diviso i diritti in 4 lotti? Neanche per idea. La Lega accettò di incassare 130 milioni in meno rispetto alle proposte giunte sul bando di gara. Ma l’esito della gara era tale da alterare l’equilibrio tra Mediaset e Sky. Sky, infatti, si era aggiudicata i diritti delle migliori 8 squadre per il satellite, con l’offerta più alta. Ma non tutte le altre partite in esclusiva su satellite e digitale terrestre: la sua offerta era risultata inferiore a quella di Mediaset. Senonché il lotto arrivò a Sky attraverso Mediaset, dopo che l’Agcom, con l’Antitrust stessa e in accordo con la Lega, diede il via libera alla sub-licenza. Mediaset aveva offerto di più, ma non si capì mai come potesse subordinare la sua offerta anche a uno degli altri lotti maggiori, cosa che il bando non prevedeva. Per questo i due gruppi tv trattarono, e la Lega Calcio ne fu ben felice, non potendosi inimicare il Milan che era anche uno dei due gruppi tv in contesa, nonché un pezzo essenziale della politica italiana.

E la cosa incredibile fu che a quel patto di plateale violazione di ogni regola della concorrenza hanno dato allora la benedizione l’Agcom e l’Antitrust, che oggi indaga evidentemente sulla sua cecità di allora visto che l’infrazuione alle regole avvenne sotto gli occhi di tutti. Il patto consentiva a Sky e Mediaset di continuare a utilizzare le rispettive piattaforme su cui operano tradizionalmente (digitale e satellite), mentre saltava l’assegnazione “incrociata” dei lotti per massimizzare i profitti (ovvio che 130 milioni in meno alla Lega hanno colpito le casse dei club minori).

Il grande padrino dell’accordo fu il consulente della Lega Calcio, la Infront di Marco Bogarelli, il vero mediatore a cavallo tra calcio e tv che sconfessò lui per primo il bando che aveva scritto. E anche se nel frattempo Infront è diventata di proprietà del gruppo cinese Wanda, sempre Bogarelli resta alla sua testa come re invisibile del maggior flusso finanziario che regge il malato calcio italico. Regge per modo di dire: perché quel miliardo scarso l’anno copre solo l’80% del costo del personale dei club di serie A, tanto per dirne una.

Diamo un occhio a valutazione e bilanci dei club. Il Milan nel bilancio 2014 ha registrato ricavi per 224 milioni, il patrimonio netto è negativo per 94 milioni, la perdita è di ben 91 milioni. I debiti totali sono 334 milioni, una volta e mezza il fatturato. La Juventus ha ottenuto ricavi per 300 milioni, ma ha patrimonio netto positivo di 42 milioni, un margine operativo di 69 milioni, perdite di 7 milioni, debiti per 211 milioni. Infatti capitalizza in Borsa praticamente solo quanto i suoi ricavi. La Lazio, tra le tre squadre italiane quotate ha chiuso in utile il 2014 per 7 milioni, ha ricavi per 84 milioni, un margine operativo positivo di 24 milioni, debiti finanziari per soli 20 milioni. Ma vale in Borsa meno dei suoi ricavi. La Roma ha chiuso in perdita per 38 milioni, con debiti a 137 milioni e con solo 128 milioni di ricavi. Ma in Borsa vale un multiplo della Lazio, che invece ha i conti in regola.

Le quotazioni di borsa italiane del calcio sono pura follia, svincolate da asset patrimoniali   e rendimento del capitale. Non andavano autorizzate dalla Consob negli anni ’90, perché altrove in Europa furono consentite solo con stadi propri delle società e attività da merchandising oltre a incassi e diritti tv. Il Manchester United da solo nel 2013 ha registrato profitti per 204 milioni. Fate un paragone coi conti delle grandi società italiane citati prima, e capirete perché in 15 anni la seria A italiana dall’essere insieme alla Premier League britannica la prima del continente per fatturato, è diventata a mala pena la quinta in Europa. Negli ultimi 5 anni, la Premier League britannica ha registrato incassi a vario titolo per 15 miliardi, la serie A per 8. Tre anni di diritti tv britannici valgono quasi 6 miliardi, il doppio dell’accordo dell’intera Lega calcio per tutti i campionati italiani. E mentre la Bundesliga tedesca registrava nei bilanci 2013 profitti per 62 milioni, la serie A aveva perdite per 166 milioni.

E’ per questo, che il calcio italiano è preda di manager senza scrupoli, senza capitali, di scarsa cultura a giudicare dalle loro stesse dichiarazioni, e troppo spesso dediti al malaffare. Sono le cifre a dirlo: e regolatori e istituzioni lo sanno benissimo.

18
Mag
2015

Pensioni: resta l’equità violata tra generazioni

La restituzione dell’indicizzazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo INPS, bloccata nel 2011 per gli anni 2012 e 2013 e giudicata illegittima dalla Corte Costituzionale, non sarà integrale per tutte i trattamenti comunque alti. Sarà integrale per quelle a 1500 euro, e via via minore fino a fermarsi ai 3mila euro. Rispondiamo a una prima domanda: è coerente alla sentenza?

la risposta è sì, è coerente. Hanno torto sindacati e opposizioni, a cominciare dalla destra che votò quella misura, ad attaccare il governo asserendo che la sentenza della Corte imponga la restituzione di tutto a tutti. Hanno torto marcio, per ragioni formali e sostanziali, e ora vedremo perché. Ma, in ogni caso, anche la decisione del governo non chiude il capitolo. Perché le storture previdenziali sono tante e tali che, soddisfatta la Corte, bisognerà per forza rimetterci mano.

Perché non bisogna restituire tutto a tutti? In primis, perché è formalmente la stessa sentenza della Corte a consentirlo e indicarlo. Poi, nella sostanza: perché non è giusto. Vediamo l’argomento formale. Nei punti 5, 6 e 7 della sentenza sulle pensioni, la Corte Costituzionale, ripercorrendo gli interventi di blocco perequativo a cui in passato diede assenso, ha richiamato che l’intervento del 2011 andava bocciato perché non tutelava abbastanza le fasce più basse, perché biennale e non annuale, e perché non proporzionava gli effetti di blocco in maniera progressiva. Queste tre condizioni si soddisfano dunque non con la restituzione di tutto a tutti, come continuano a ripetere sindacati e oppositori politici, ma reintegrando maggiormente i trattamenti subito superiori a tre volte il minimo INPS, e poi graduando il recupero fino a una certa soglia, e non prevedendolo invece per quelle superiori.

A questo argomento formale, aggiungiamo la considerazione che scrivemmo all’indomani della sentenza. Non ridare tutto a tutti risponde a equità perché. In un sistema a ripartizione come resta il nostro, non è equo continuare a caricare oneri sui più giovani, i cui contributi pagano le pensioni in essere, non avendo più le giovani generazioni né le pensioni retributive né la facoltà di andare in pensione molto prima, come appunto i pensionati i cui assegni i giovani oggi pagano.

Aggiungiamo anche un altro argomento: non uno di coloro che gridano perché cvogliono la restituzione integrale ha indicato da dove avrebbe preso i miliardi che sarebbero occorsi per l’integrale restituzione  2012-2015 della mancata perequazione. Sono tanti: le cifre fatte nell’audizione parlamentare – non casualmente a porte chiuse – dal viceministro Morando sono per gli anni 2012-2015 complessivamente pari a 23,8 miliardi lordi e 17,6 netti (cioè una volta che lo Stato abbia reincassato l’IRPEF relativa) più 6,4 miliardi lordi e 4,6 netti per ogni anno dal 2106 al 2018 incluso. Non solo la Corte, buona parte della politica italiana ha già dimenticato l’articolo 81 della Costituzione che vincola all’equilibrio di bilancio.

Detto ciò, per il recupero deciso dal governo Renzi usa oltrre 2 miliardi di euro coperti in deficit, visto che il sedicente “tesoretto” era deficit e non coperto da tagli di spesa. resta il problema di capire come si coprirà l’esborso “selettivo” scelto dal governo. La Commissione Europea non era d’accordo, ma ora non fiaterà perché c’è di mezzo una sentenza della Corte Costituzionale.

Ma, al di là di questo, il problema previdenziale italiano resta. Guardiamoci negli occhi. La da tanti odiata riforma Fornero ha alzato l’età pensionistica rafforzando la stabilità del sistema, ma nella fretta di evitare la Trojika non ha affrontato il punto vero dell’equità violata, in materia previdenziale: far pagare a chi ha molto meno pensioni maturate con regole diverse da chi ha molto di più.

Anche nel 2015 l’INPS, informa l’organo di vigilanza dell’istituto, chiuderà per il quarto anno consecutivo con un deficit di almeno 5,6 miliardi, e saranno 30 miliardi cumulati dunque da quando, nel 2012, l’istituto ha accorpato la gestione delle pensioni pubbliche in capo all’INPDAP. Le pensioni pubbliche pesano per 65 miliardi di euro l’anno, cioè sono pari a un quarto del totale dell’esborso annuale previdenziale (in senso stretto, esclusi i trattamenti assistenziali a carico dell’INPS), ma i pensionati pubblici sono solo 2,8 milioni, rispetto a oltre 20 milioni in Italia. La loro pensione media è di circa il 60% superiore a quella degli ex dipendenti privati. L’INPS meritoriamente, dacché ne è presidente Tito Boeri, pubblica le cifre delle gestioni previdenziali delle categorie più “privilegiate” dell’era retributiva, come gli ex dipendenti ferroviari, elettrici, postelegrafonici. Categorie che avevano diritto alle baby pensioni, con multipli di trattamento maturato pari anche a 5 o 6 volte i contributi versati.

A fronte di tutto questo, poiché a pagare quegli assegni sono oggi coloro che quelle pensioni se le sognano e pagano contributi assai più elevati, sarebbe necessario un ricalcolo su base contributiva che incida sul differenziale in maniera progressiva, non annullandolo ma almeno contenendolo nei casi di maggior vantaggio rispetto ai contributi versati e per assegni dai 6 o 7 volte il minimo INPS in più. Sarebbe più che opportuno non solo per abbassare il pur pauroso esborso annuo all’INPS che proviene dalla fiscalità generale pari a 90 miliardi. Quanto per diminuire i contributi versarti oggi da chi sta e starà in futuro molto peggio.

La cosa pazzesca e difficilmente digeribile è che un ricalcolo contributivo preciso per i dipendenti pubblici sia difficoltoso perché lo Stato non ha tenuto il conto dei contributi che versava, per il semplice fatto che li considerava una partita di giro rispetto alle pensioni da erogare, e cioè non li versava. Altra conferma del caos pubblico in cui viviamo, addossandone il costo a chi sta peggio.

Ma ha mille volte ragione Paolo Savona, che ieri ha dichiarato: “il ricalcolo delle pensioni sulla base dei contributi versati è doveroso, perché il cittadino deve sapere quali oneri porta a carico della collettività per regolarsi di conseguenza su quale sia la sua posizione nei confronti della società, sia per calmierarsi nell’uso dei servizi che lo Stato gli rende, sia per pretendere che essi vengano prodotti in modo efficiente, tutti conoscenze che devono orientare l’elettore”. Prima di esaminare anche solo l’ipotesi di concedere salari di cittadinanza, cerchiamo di capire quanti milioni di italiani incassano trattamenti che, a tutti gli effetti, sono già una negative income tax, cioè una franchigia positiva sulle tasse che pagano, con un costo a carico di altri cittadini meno fortunati.

17
Mag
2015

I veri conti del ‘buco’ costituzionale nella spesa per le pensioni

Qual è l’impatto sulla finanza pubblica delle recente sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato la deindicizzazione per il biennio 2012-13 delle pensioni medio-alte ed elevate, introdotta a fine 2011 dal governo Monti? E, in particolare, quale sarebbe il costo complessivo per le casse pubbliche se lo Stato fosse obbligato a una completa restituzione delle somme non erogate dagli istituti previdenziali nel triennio 2012-14 e nell’anno in corso? Poiché le stime pubblicate in questi giorni, nessuna delle quali ufficiale, risultano molto variabili e tutte più elevate del dato inizialmente diffuso, di fonte Avvocatura dello Stato, non sembra esservi soluzione migliore che provare a rifare il calcolo, applicando le regole introdotte dal provvedimento Monti  ai dati disponibili sulle pensioni in essere a fine 2011 e sulla loro distribuzione per classi di importo mensile. Read More

16
Mag
2015

I lavoratori votino a maggioranza, per scioperare nel trasporto pubblico

Ieri, altro venerdì di passione nel trasporto pubblico locale, a Roma e molte altre città italiane. Lo sciopero indetto da un sindacato minore, l’USB, a Roma ha prodotto il fermo di due delle tre linee della metropolitana e una forte riduzione delle corse degli autobus. A Milano lo sciopero non si è tenuto, perché il prefetto ha precettato considerando la concomitanza dell’EXPO. A Torino, per via dell’esposizione della Sindone, è rimbalzato al 24 maggio.

Ma lo stillicidio di scioperi nel trasporto ripropone ormai in maniera non rinviabile una questione che già abbiamo sollevato il 17 aprile scorso, quando l’ira dei passeggeri romani esplose, e dovettero intervenire le forze dell’ordine. Occorre una nuova legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Il ministro Delrio, proprio intervistato dal Messaggero, disse che il governo ci stava pensando. Bene, ora è il momento di passare dalla riflessione ai fatti. Quel che non si può credere, è che i limiti a scioperi proclamati a raffica da sigle sindacali di bassa e bassissima rappresentatività possano essere identificati solo se in una grande città si tiene l’EXPO, l’ostensione della Sindone, o prossimamente a Roma il Giubileo. Liberiamoci da questa ipocrisia. Il diritto dei cittadini, dei lavoratori e dei turisti va meglio salvaguardato sempre, perché oggi e da anni non lo è, rispetto alla tutela che va garantita al diritto di sciopero. Anzi, diciamola tutta: Roma non ha proprio bisogno del Giubileo, per essere salvaguardata meglio ogni giorno. Il peso che porta per le mille manifestazioni annuali che si tengono a Roma perché è la Capitale, l’afflusso costante per la presenza del Vaticano e del papa, tutto ciò basta e avanza perché a Roma – ma vale per tutta Italia – una normativa più equilibrata tuteli meglio la continuità e regolarità del servizio pubblico.

Abbiamo già spiegato ai nostri lettori che in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali abbiamo una legge di fine anni Novanta, emendata successivamente, che insieme agli accordi tra sindacati e imprese di trasporto fissa dei limiti sulle fasce di garanzia da offrire al pubblico, sui tempi minimi di preavviso, e sulle procedure di “raffreddamento” conciliativo delle vertenze. In Italia, per via di quella legge, non sarebbero possibili gli scioperi a oltranza del settore pubblico che avvengono annualmente in Francia, o quello di sette giorni che ha bloccato le ferrovie la settimana scorsa in Germania.

Però quella legge, e gli accordi bilaterali tra sindacati e imprese di trasporto, nulla dicono della rappresentanza minima dei sindacati e-o della necessità di far votare preventivamente i lavoratori, superando nel referendum una certa soglia di consenso, per poter indire uno sciopero. E’ questo il punto più delicato che occorre finalmente affrontare. Sappiamo bene che il governo ha in corso con i sindacati uno scontro diretto su molti temi, a cominciare dalla scuola. Ma non è una buona ragione per non mettere mano a quest’altra questione fondamentale: quali nuove regole porre, perché ogni venerdì di ogni settimana un sindacato minore non firmatario degli accordi con le aziende non s’inventi uno sciopero dei trasporti?

Offriamo qualche spunto di riflessione. L’industria privata, insieme a Cgil, Cisl e Uil, hanno firmato a gennaio 2014, dopo 3 anni di confronto, un protocollo interconfederale che fissa con precisione le soglie sopra le quali ci si siede ai tavoli contrattuali nazionali e aziendali, si firmano accordi che a quel punto sono validi ed esigibili erga omnes, e si ha diritto a godere dei diritti sindacali. E’ un meccanismo di cui siamo – a un anno di distanza – all’inizio della fase attuativa, perché spetta all’INPS procedere alla verifica della rappresentanza sindacale, controllando sia gli iscritti dichiarati sia i voti raccolti nelle rappresentanze unitarie aziendali, votate dai lavoratori. Si prevede che gli accordi siano validi a seconda che siano approvati dalle rappresentante aziendali dove sono solo i delegati sindacali, e dove a quel punto basta la maggioranza delle sigle più rappresentative, o se invece approvati dalle RSU serve anche la maggioranza dei voti dei lavoratori.

Sono regole che varranno solo in una parte, sia pur molto importante, dell’economia privata italiana. Ma sono da estendere al pubblico. Anche perché le municipalizzate come l’Atac a Roma o l’ATM a Milano hanno contratti “privati”, non pubblici. Per capirci: l’USB non si riconosce né nelle intese firmate da Cgil, Cisl e Uil con l’Atac a Roma, né analogamente in quelle sottoscritte con ATM a Milano. Ma se valessero nel trasporto locale le regole di rappresentanza accettate dal sindacato nell’industria, le intese sarebbero pienamente valide ed esigibili senza che sigle minoritarie non firmatarie potessero disconoscerle.

Cosa ancor più delicata è fissare delle soglie certe di rappresentanza sindacale non per siglare intese e contratti, ma per indire scioperi. Mentre la materia contrattuale vede in campo la tutela dei lavoratori e quella delle aziende, nel caso degli scioperi va tutelato anche l’interesse pubblico, quello dei passeggeri nel trasporto pubblico, e degli utenti in generale nei servizi pubblici essenziali. In questo caso, il governo dovrà riflettere attentamente. Non solo per evitare nuovi scontri con il sindacato.

La giurisprudenza della Corte costituzionale è unanime, nel ritenere il diritto di sciopero come prerogativa del singolo lavoratore, non devoluta alla mera decisione della rappresentanza sindacale. Ci sono stati casi in passato di scioperi promossi dal basso attraverso sms nei confronti dei quali ogni intervento di precetto risultò impossibile, proprio perché la giurisprudenza riconosce che l’esercizio della tutela costituzionale dello sciopero si intesta a ogni singolo lavoratore.

Veda dunque il governo, quale soglia minima di rappresentanza sindacale è necessaria per indire uno sciopero nei trasporti pubblici. Ma dovrà pressoché obbligatoriamente prevedere che siano gli stessi lavoratori, a pronunciarsi preventivamente. Sappiamo di dire una cosa che ai sindacati non piace, ma nel trasporto pubblico occorrerebbe per noi più del 50% dei voti, visti i danni che s’infliggono ai cittadini, e all’economia dell’intero Paese.

Non vogliamo illuderci. Può essere benissimo che il governo scelga soglie più basse. Ma il punto di fondo è un altro. Regole nuove servono. Questo capitolo va aperto. Basta con la guerra tra sigle sindacali – questo sono, gli scioperi delle piccole sigle contro le grandi, per mostrare di aver più seguito – combattute ai danni di Roma e dell’intera comunità nazionale.