21
Mag
2015

Fondi Pensione, opportunità da cogliere e tentazioni da evitare—Marco Abatecola

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Marco Abatecola.

Il Decreto Ministeriale sul Credito di Imposta per gli investimenti in economia reale, effettuati dai Fondi Pensione e dalle Casse Privatizzate, sarà probabilmente poca cosa in termini di reali risparmi ma potrà comunque rappresentare un punto di svolta per il sistema. Non tanto per gli ottanta milioni di euro destinati allo sconto della tassazione sui rendimenti maturati, quanto per il senso di un provvedimento che non ha delimitato il campo delle asset class che ne potranno beneficiare, ampliando invece in maniera significativa l’universo investibile. Ricomprendendovi in sostanza qualsiasi strumento, quotato e non, che sia collegato all’economia reale e sia mantenuto in portafoglio per almeno cinque anni o, nel caso di cessione, ne sia comunque reinvestito il corrispettivo entro trenta giorni in analoga attività.

Nessun accenno ad iniziative legate alla Cassa Depositi e Prestiti o a Fondi di Sistema – in ogni caso non per questo esclusi – ma completa libertà di scelta per gli operatori istituzionali. Un bel segnale, stavolta, che sgombera il campo dai timori che in tanti nutrivamo sui pericoli di vincoli di portafoglio più o meno mascherati. Allontanate le tentazioni dirigiste, si chiede ora ai Fondi Pensione di essere loro i protagonisti del processo governandolo e controllandolo direttamente. Aiutati in questo da uno strumento in grado di incentivare e favorire l’ingresso di nuovi capitali nel sistema economico senza volerne in qualche modo orientarne a monte i flussi.

In prospettiva l’impatto può essere decisivo se si pensa che oggi le risorse gestite dai Fondi sfiorano i 130 miliardi e che la COVIP nel corso di una recente audizione parlamentare, datata aprile 2014, ha sottolineato che “la quota di patrimonio che i fondi pensione destinano al supporto dell’economia reale italiana è limitata: alla fine del 2012 (…) i titoli emessi da imprese italiane totalizzavano 2,3 miliardi di euro (il 3,1 per cento del totale): di questi, 1,7 miliardi (il 2,2 per cento) si riferiva a titoli di debito e 660 milioni (lo 0,9 per cento) ai titoli di capitale”. La strada da fare come si vede è quindi lunga.

Nel Regno Unito già nel 1967 c’erano oltre 12 milioni di iscritti a Fondi Pensione e nel 2000 – quando da noi si era ancora in fase pionieristica – su un totale di 21,4 milioni di lavoratori dipendenti, 13,5 milioni aderivano a forme pensionistiche di secondo pilastro per un patrimonio gestito di oltre 980 miliardi di euro. Qui Napf – l’associazione dei fondi pensione inglesi – ha da tempo promosso una piattaforma di investimento comune che, nata dall’idea di George Osborne, è orientata al finanziamento di progetti economici utili alla crescita del paese e al miglioramento dell’intero ciclo economico. Un modello che ha favorito uno sviluppo armonico del sistema e ha aiutato l’afflusso nel settore degli investimenti in economia reale di risorse iniziali già rilevanti, per una decina di Fondi aderenti con un commitment di 100 milioni di sterline ciascuno, ma con un potenziale ulteriore enorme se si pensa che gli associati a Napf gestiscono capitali per oltre mille miliardi di sterline.

Le masse gestite oggi dal totale della previdenza complementare italiana sono lontane da questi numeri e rappresentano poco più del 7% del PIL italiano – più o meno come in Germania – non paragonabili a Paesi come il Regno Unito (73% del Pil), la Finlandia (76%), la Svizzera 101% o l’Olanda 129,8%. Il potenziale inespresso è quindi importante e questo decreto può rappresentare la scintilla che serve per mettere in moto un meccanismo nuovo, entrando in una nuova fase di opportunità. A patto però che si creda tutti nella necessità di consolidare e rafforzare il pilastro di previdenza complementare, senza cedere alla tentazione di considerarne i relativi accantonamenti come rendite sulle quali far cassa al momento del bisogno. Abbandonando anche quel pregiudizio che alcuni settori dell’industria finanziaria e, qualche volta, della politica nutrono nei riguardi delle forme pensionistiche sia collettive che individuali. Quasi fossero degli investitori un po’ naif, ancorati a strutture e politiche di investimento superate dalla storia e dai mercati. Incapaci di estrarre valore in momenti di estrema complessità come quelli in cui viviamo ed investiamo. Un pregiudizio che, è innegabile, esiste e che può facilmente essere colto in tante prese di posizione ed interventi.

Eppure la realtà delle cose è ben diversa e ci racconta una storia differente. Ci racconta di Fondi Pensione che hanno ampiamente dimostrato la loro capacità di gestire al meglio le risorse affidate, perseguendo quella finalità previdenziale loro assegnata dalla norma anche nei momenti di volatilità marcata o di crisi globale.

In un periodo così complicato i Fondi Pensione sono così riusciti a tutelare il risparmio degli aderenti con un rendimento medio negli ultimi 9 anni superiore al 3,6%. La stessa autorità di vigilanza ha ricordato come osservando i rendimenti dei fondi, a partire dall’inizio del 2000, si registra un risultato cumulato pari al 48,7 per cento, superiore al 46,1 per cento ottenuto dal TFR. Risultati importanti che non sempre possono essere vantati da chi pretende però di dare lezioni di modernità. Questo a testimonianza di come l’assetto del nostro secondo pilastro sia ormai perfettamente in grado di perseguire l’obiettivo previdenziale degli aderenti, affrontando al tempo stesso le nuove sfide che lo sviluppo del sistema potrà e dovrà porre. Anche in termini di sostegno all’economia reale e di maggiore diversificazione dei portafogli.

Si può, ovviamente, sempre far meglio ma i dati oggettivi raccontano quindi una storia di successo che abbiamo tutti il dovere di rispettare. Almeno per quei sei milioni e mezzo di risparmiatori che hanno scelto di iscriversi nonostante una normativa in continua evoluzione ed investimenti non proprio rilevanti che negli anni si è scelto di fare in termini di financial literacy ed educazione previdenziale. In sostanza, se lasciassimo da parte i pregiudizi e provassimo serenamente a ragionare sui temi in campo, ci accorgeremmo che questo paese ha davvero bisogno di investitori istituzionali forti ed organizzati. Il cui ruolo può essere determinante non solo per la stabilizzazione dei flussi di capitale e per la maggiore efficienza nell’allocazione del risparmio ma anche per la crescita e la diffusione della ricchezza e del benessere.

Basta aver tutti chiaro in testa il modello previdenziale che si vuole costruire e lavorare poi per quello, con il futuro come unico e solo obiettivo.

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2 Responses

  1. DDPP

    La maggior parte degli “investimenti” dei FPC è in titoli di stato. Se questi dovessere scegliere di investirli in obbligazioni, prestiti (brrrr), finanziamneti a imprese private per qualche decina di miliardi di euro, contestualmente non sottoscrivento titoli di debito pubblico, il ministero del tesoro dove trova i sottoscrittori alternativi.
    Aumentiamo un pochino i tassi del BTP?

  2. Marco Abatecola

    Vero ma effetto spiazzamento sarebbe minimo, anzi direi nullo. Queste sono asset class che vanno inserite in un ptf ma in percentuali residuali rispetto al patrimonio in gestione e tutt’al più sostituendo una parte di investimento in equity o in corporate bond.

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