10
Giu
2016

La bestialità di tutele diverse tra lavoro pubblico e privato: ma è colpa dei governi, non dei giudici

L’Italia è un paese dove la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Naturalmente, non è così. Politici e magistrati fanno a gara a impedirlo. A cominciare dal mercato del lavoro. I diritti fondamentali nei rapporti di lavoro sono diversi tra dipendenti privati e pubblici? No, direbbe il buon senso. Invece sì, ha sentenziato molte volte la Corte Costituzionale. Ma almeno è chiaro se le riforme approvate in questi anni limitatamente allo Statuto dei Lavoratori si applicano anche ai dipendenti pubblici, come sembrerebbe ovvio visto il rinvio esplicito che il Testo Unico del Pubblico Impiego fa allo Statuto? Sì, certo, direbbe il buon senso: se il Testo Unico rinvia alla legge 300 del 1970 ed essa viene modificata, è ovvio che le modifiche valgano per tutti allo stesso modo. E invece no, dicono due diverse sentenze della Corte di Cassazione, la 24157/2015 del novembre scorso, e la 11868/2016 depositata ieri. Sentenze che verrebbe facile definire di senso opposto: la prima infatti è favorevole all’omologazione privato-pubblico delle modifiche in materia di articolo 18 dello Statuto sui licenziamenti, operati dalla riforma Fornero prima nel 2012 (la sentenza si riferiva a quella modifica) ed ergo per estensione poi dal Jobs Act del governo Renzi; mentre quella di ieri sostiene il contrario. Motivo per il quale molte delle prime reazioni ieri hanno sottolineato il paradosso di tesi contrapposte, mentre ovviamente sindacati e politici contrari al nuovo articolo 18 esultano.

Prendersela coi giudici filopubblicisti e statalisti, dunque? Per rispondere bisogna capire, e per capire occorre un po’ di pazienza. Le sentenze della Cassazione, apparentemente opposte, non lo sono poi tanto. Entrambe richiamano la necessità di esplicite norme di armonizzazione, quando si interviene nel diritto del lavoro, per sancirne l’applicazione anche ai dipendenti pubblici: ed è una tesi molte volte motivata in sentenze della Corte Costituzionale. La politica lo sapeva benissimo, che queste norme ad hoc esplicite servivano, per applicare alla PA l’articolo 18 modificato dal governo Monti e poi da quello Renzi. Ma non le ha scritte. E, almeno nel caso del governo Renzi, non per dimenticanza o ignoranza, ma perché ha sempre sostenuto che la sua riforma non si applica ai dipendenti pubblici: anche se non l’ha scritto in un testo di legge. Insomma è con la politica che dovete prendervela e non con i magistrati, se come me pensate che sia iniquo (anzi: un vero schifo) avere i dipendenti pubblici più tutelati dei privati, e cioè con molti più margini per ottenere una reintegra giudiziale in caso di licenziamento, visto che per i dipendenti privati resta solo nel caso di comprovato licenziamento discriminatorio, mentre c’è solo un’indennità per quelli economici e per giustificato motivo soggettivo.

Ricordiamo però il punto di fondo: la giurisprudenza della Corte Costituzionale, in materia di differenza tra lavoro pubblico e privato. E’ l’ennesima volta che lo faccio in questi anni, ma repetita iuvant. Per esempio la sentenza numero 146 del 2008. “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite «della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001). La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre – anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato – una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003)”. La Corte costituzionale respinse con quella sentenza del 2008 la pretesa di estendere automaticamente un trattamento dal privato al pubblico, “in nome delle specificità irriducibili del lavoro pubblico per il quale rileva l’articolo 97 della Costituzione”.

Numerose sentenze delle sezioni civili nonché riunite della Corte di Cassazione sono state ispirate alla medesima linea, la perdurante “non omogeneità” del lavoro pubblico e privato. Ma attenzione, la Corte Costituzionale non ha mai escluso la possibilità di omologazione tra lavoro pubblico e privato: ha sempre escluso invece “l’automaticità” dell’applicazione delle riforme alla PA in assenza di norme ad hoc, che contemperassero il rispetto dell’art.97 della Costituzione in materia di autonomia e indipendenza della pubblica amministrazione.

Entrambe le sentenze apparentemente opposte della Cassazione  sopra richiamate, quella di ieri e quella del novembre scorso, esplicitamente anch’esse infatti richiamano la necessità di “norme di armonizzazione”. La differenza delle due sentenze sta nel fatto che la prima riconosceva la nullità di un licenziamento pubblico in Sicilia per violazione delle norme vigenti sui provvedimenti disciplinari, decidendo a favore del ricorrente l’indennità prevista dalla legge Fornero. Mentre la sentenza di ieri dà ragione a un altro dipendente pubblico licenziato per doppio lavoro, ma ancora una volta perché l’amministrazione pubblica non gli ha riconosciuto l’indennità riconosciuta dalla legge Fornero in caso di violazione anche qui avvenuta sulle contestazioni disciplinari, e rinvia la decisione alla Corte d’appello. Come si vede, le sentenze sono molto più analoghe di quanto sembri: la differenza è che questa seconda però prende risolutamente atto del fatto che le norme attuative ad hoc per l’applicazione delle nuove norme alla PA continuano a mancare, ergo in loro assenza per la PA resta il vecchio dettato dello Statuto dei Lavoratori e non il nuovo.

Il governo Renzi è d’accordo: sin dall’inizio ha affermato in interviste che il nuovo articolo 18 no vale per il lavoro pubblico. Nel Pd erano in pochi come il senatore Ichino a sostenere il contrario, insieme al viceministro Enrico Zanetti e ai parlamentari di Scelta Civica. La maggioranza del Pd, come Damiano o Baretta, è sempre stata contro l’omologazione, oltre alla minoranza del partito e naturalmente alla CGIL, UIL e Cobas.

Il risultato è l’ennesima frammentazione del mondo del lavoro. Un’occasione persa. Un errore vero e grande. Non solo la reintegra giudiziale che resterà per i lavoratori pubblici tra gli italiani “privati” è incomprensibile e impopolare, a maggior ragione con i numerosi casi scandalosi che puntualmente avvengono anche a fronte di licenziamenti per macroscopiche mancanze disciplinari. Inoltre, escludere dal lavoro pubblico il contratto a tutele crescenti è un errore anche perché consentirebbe di vagliare meglio la professionalità dei nuovi ingressi, concorso o non concorso vinto per accedere al ruolo. Ma soprattutto perché il fronte sindacale non era affatto unitario, nel difendere l’inapplicabilità ai lavoratori pubblici delle stesse regole del privato. Il segretario della funzione pubblica Cisl Faverin si era detto pronto alla piena parificazione tra pubblico e privato, nell’ambito dei nuovi contratti da scrivere nel pubblico impiego dopo 5 anni di stop. Non cogliere né l’umore profondo degli italiani, né importanti disponibilità sindacali a ragionare in modo nuovo, è una battuta a vuoto per l’innovazione dell’Italia.

 

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1 Response

  1. FR Roberto

    L’ho già sostenuto in altre occasioni.

    Esiste una soluzione ai mali della Pubblica Amministrazione.

    Escludendo Forze Armate e Forze dell’Ordine, tutti gli altri comparti della PA potrebbero esternalizzare praticamente tutto quello che oggi viene svolto (in maniera quasi sempre inefficiente) da dipendenti pubblici.

    Il tutto dovrebbe essere condito da sanzioni pesantissime, da pene certe e da controlli pervasivi per evitare furbetti ed abusi.

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