24
Ago
2009

Inondazione di ultima istanza

Pare ormai acquisito che la Grande Recessione stia volgendo al termine, almeno sul piano delle variazioni del Pil, mentre l’andamento dell’occupazione sembra destinato a restare depresso almeno fino alla seconda metà del 2010. Circostanza che solleva perplessità riguardo la sostenibilità della ripresa nella perdurante assenza del consumatore americano, che deve prioritariamente preoccuparsi di ridurre il proprio indebitamento e non perdere il lavoro, o trovarne rapidamente uno nuovo, in caso sia disoccupato. Tra gli analisti restano tuttavia significative divergenze riguardo il vigore della ripresa in atto e la sua auto-sostenibilità, al netto dell’impulso fiscale.

La domanda fondamentale è relativa alla dimensione dell’output gap, cioè il vuoto di attività che separa la condizione corrente dal pieno impiego delle risorse economiche. A quanto ammonta oggi l’output gap? E la crescita di trend, è stata intaccata dalla crisi o riprenderà allo stesso passo di prima della recessione? E’ su questi punti che si registrano forti dispersioni di previsioni intorno alla tendenza centrale.

Quello di output gap è un concetto astratto ed accademico, ma presenta rilevanti implicazioni di policy. Ad esempio, dall’esistenza ed ampiezza dell’output gap deriva la presenza o l’assenza di pressioni inflazionistiche, oltre all’andamento del gettito fiscale, a parità di legislazione e scala delle aliquote. La banca centrale che ritiene che il gap stia colmandosi velocemente, o che sia di dimensioni limitate, agirà per rimuovere rapidamente lo stimolo monetario, alzando i tassi.
Analogamente, un errore governativo nello stimare l’invarianza della crescita di trend al valore ante-crisi finirebbe col sovrastimare il futuro gettito fiscale, ed ipotizzare un percorso eccessivamente ottimistico di rientro dal deficit, destinato ad andare incontro a spiacevoli sorprese di sostenibilità fiscale nel medio termine.

Qualcosa del genere pare sia accaduto negli Stati Uniti, dove le nuove proiezioni del bilancio federale, che saranno ufficializzate nella giornata di domani, sembrano destinate ad aggiungere altri 2000 miliardi di dollari di deficit nei prossimi dieci anni (ai 7000 originariamente previsti), essenzialmente a causa di entrate fiscali nettamente inferiori a quelle previste nei mesi scorsi da uno scenario eccessivamente roseo.

Il sostantivo-chiave, per la congiuntura, è dunque “incertezza”, coniugato con l’aggettivo “elevata”. Razionalmente dovremmo quindi attenderci l’applicazione ai mercati di uno sconto per l’incertezza, mentre quello che osserviamo da molti mesi è in realtà un premio di liquidità, che alimenta sopravvalutazioni di asset, se proprio non vogliamo usare il termine “bolla”. Sopravvalutazione che potrebbe essere destinata ad aumentare se dovesse trovare conferma la tesi del presidente della Fed di Saint Louis, James Bullard, che ritiene che i mercati non abbiano realmente colto il senso della frase riportata da parecchi mesi in calce al comunicato finale del Federal Open Market Committee:

“Il Comitato continua a prevedere che le condizioni economiche siano suscettibili di giustificare per un periodo di tempo prolungato livelli eccezionalmente bassi del tasso sui fondi federali”

Secondo Bullard, ciò significa che i tassi non verranno aumentati al manifestarsi dei primi segni non transitori di ripresa, al fine di indurre negli agenti economici aspettative inflazionistiche, che a loro volta fornirebbero una spinta alla domanda, necessaria per colmare rapidamente l’output gap. Se l’interpretazione di Bullard fosse corretta, si tratterebbe di una forma di “stimolo” che agisce sulle aspettative, anticipando decisioni di consumo e investimento. Ad oggi, essa non pare aver avuto particolare successo dal versante della domanda, ma molto di più su quello della propensione dei mercati ad ignorare i fondamentali, rafforzando il convincimento che vi sarà sempre e comunque una “inondazione di ultima istanza” a trarre d’impaccio il sistema finanziario. Ma forse, proprio questo sta a dimostrare che i mercati hanno letto fin troppo bene tra le righe degli statement del FOMC.

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