6
Giu
2013

In un sistema corrotto, lo Stato spreca i migliori talenti.

La corruzione è male antico, ma solo in tempi relativamente recenti oggetto di più diffuso e approfondito dibattito. Declinata soprattutto in termini morali, tanto più se ne avverte la portata quanto più gli effetti che induce si traducono in un generale detrimento del benessere sociale, andando a incidere, oltre che sugli interessi tutelati dall’ordinamento, altresì sui principi che regolano il buon funzionamento di un mercato realmente competitivo.

 

A tale riguardo, che un ambiente concorrenziale, favorevole al confronto fra coloro i quali vi operino in quanto sanamente dotato di poche ed efficaci regole da questi ultimi rispettate, sia idoneo a innestare un circolo virtuoso è principio di buon senso, prima ancora che economico. Facendo assurgere il merito a criterio premiante, infatti, incentiva la crescita personale e fornisce una spinta propulsiva al progresso economico generale. Quando, invece, detto ambiente venga minato da fenomeni distorsivi, i conseguenti effetti deprivano di opportunità i singoli e di risorse la collettività. Definire la portata di tali fenomeni è importante, al fine di valutarne il costo e individuare le azioni più idonee a contrastarli.

La corruzione è uno dei fattori maggiormente in grado di alterare i meccanismi sulla base dei quali operano i mercati concorrenziali, svilendo la capacità personale quale elemento di valorizzazione delle individualità, disincentivando la competizione fra soggetti meritevoli e favorendo logiche di malaffare volte a far prevalere chi vi aderisca. Essa induce un calo di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, ma anche degli investitori nei riguardi di un Paese la cui credibilità si misura nell’attendibilità dei suoi comportamenti, vale a dire nella rispondenza degli stessi a criteri di legalità, efficienza, efficacia e imparzialità.

Le conseguenze per l’economia sono devastanti, soprattutto in periodi di crisi, quando la ripresa potrebbe essere stimolata solo da massicci impieghi di risorse che di certo non trovano terreno fertile in un sistema connotato da illegalità anche in quanto appesantito da un’onerosità procedimentale indotta da eccesso di burocrazia. E’ negli anfratti di quest’ultima, risultato tra l’altro di sovrabbondanza e indeterminatezza normativa, di incertezza sanzionatoria nonché di un sistema di giustizia in generale poco efficiente,[1] che possono annidarsi le più varie pratiche illecite. Esse, come in un perverso circolo vizioso, tendono ad essere maggiormente alimentate proprio nei momenti di crisi diffusa, quando ancora più impellente è la necessità che i singoli hanno di superare  – in perduranti situazioni di difficoltà economiche anche ricorrendo a illegali scorciatoie – quei paletti burocratici tra cui l’iniziativa economica privata in Italia si trova costantemente a fare lo slalom.

Gli effetti della corruzione vengono esaminati sotto i più vari profili, soprattutto in occasione della pubblicazione di indici di misurazione della corruzione medesima. Quello reso noto nel mese di dicembre 2012 da Transparency International (CPI, Corruption Perception Index)[2], ad esempio, fondato sulla percezione del fenomeno corruttivo nel settore pubblico e nella politica in 174 nazioni, colloca l’Italia al 72^ posto, tre livelli più in basso che nel 2011, terzultima in Europa, seguita da Bulgaria e Grecia. In cima alla classifica si trovano Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda.

La corruzione è assimilabile a una vera e propria tassa, più o meno occulta, che produce un rilevante incremento della spesa dell’intervento pubblico: c’è una lievitazione dei costi strisciante, quantificata complessivamente dalla Corte dei Conti[3] in 60 miliardi all’anno, e una lievitazione straordinaria dei costi delle grandi opere, calcolata intorno al 40 per cento. La Corte dei Conti, che ha inoltre stimato che ogni punto in meno nel CPI  determina la perdita del 16 per cento degli investimenti dall’estero, definisce la corruzione come una “piaga che si annida nella pubblica amministrazione”, compromettendone prestigio, imparzialità e buon andamento[4]. Non è, quindi, solo sotto il profilo economico che si evidenziano i costi della corruzione. Traducendosi nella delegittimazione dei politici e, più in generale, della classe dirigente preposta ai settori pubblici nei quali il malaffare maggiormente si innerva, essa finisce per essere  genericamente associata allo Stato, anche per la contiguità tra soldi e istituzioni, producendo così conseguenze in ogni ambito in cui il potere statale operi. Ma non basta.

Che la corruzione comporti un costo anche per le intelligenze più dinamiche di giovani talenti è circostanza di immediata intuitività, di recente anche resa oggetto di ricerca scientifica. Infatti, uno studio condotto presso l’Università Cattolica di Lovanio (Belgio), intitolato “The balance of Brain – corruption and migration”[5], pubblicato da “Embo Reports” ha posto in evidenza il costo della corruzione in termini di allontanamento, dai Paesi in cui essa sia maggiormente riscontrabile, delle migliori menti che quei Paesi siano in grado di formare o che siano in grado di attrarre dall’estero. Due ricercatori italiani, avvalendosi di dati statistici e modelli matematici, hanno messo in correlazione la percentuale di corruzione (valutata in una scala da zero a sei, usando l’indice dell’International Country Risk Guide) e la migrazione di lavoratori over 25 con un titolo minimo di scuola superiore, nel periodo 1990-2000, in 123 Paesi, dei quali sono state tenute in considerazione anche le condizioni economiche. Ne è risultato che, a parità di prodotto interno pro capite, negli Stati dove più accentuato è il livello di corruzione, maggiore è l’esodo e minore, invece, l’entrata di personale qualificato.

La consapevolezza che l’accesso mercato del lavoro non dipenda da merito e capacità personali, ma sia governato da logiche familistiche, affiliazioni politiche e malaffare e che, quindi, non siano i soggetti migliori a prevalere, bensì quelli che si conformino a tali logiche, riduce quindi l’attrattività del mercato del lavoro degli Stati dove esse vengano con maggiore evidenza riscontrate. Non sono, pertanto, esclusivamente fattori quali il tipo di attività professionale offerta, gli stipendi, le politiche di immigrazione, il c.d. network effect, la qualità o il costo della vita a determinare il luogo dove i giovani più preparati decidono di svolgere la propria attività professionale. Infatti, nei Paesi connotati da fenomeni corruttivi, l’emigrazione delle più pregevoli risorse umane e professionali supera l’immigrazione delle medesime, determinando così un deficit di “talenti”: ne consegue un decremento dei livelli di produttività e, più in generale, in un peggioramento delle condizioni economiche della collettività. Viene, inoltre, vanificato l’investimento nell’educazione culturale (ciò soprattutto nei Paesi in cui, come l’Italia, esso è prevalentemente finanziato con risorse pubbliche, che risultano così allocate in maniera poco produttiva) di coloro i quali decidano di mettere il proprio cervello a servizio di un Paese diverso da quello in cui hanno ricevuto la propria formazione scolastica, risolvendosi in un’esternalità positiva per il secondo e in una deprivazione per il primo.

Non è da troppi anni che il legislatore nazionale ha preso atto del fenomeno e cominciato ad affrontare una più mirata azione di lotta alla corruzione nel settore pubblico: valorizzando la “trasparenza” come deterrente a episodi di malaffare, ma al contempo ricorrendo all’antico metodo di una sovrabbondante e minuziosa produzione normativa, mai del tutto idonea a coprire esigenze sempre più ampie (come verrà evidenziato e approfondito in un prossimo articolo).

Lo Stato deve cambiare cultura, se vuole che la cultura – anche quella di cui sono portatori i cervelli più brillanti che emigrano all’estero o che all’estero si formano e che da un mercato del lavoro dove prevalga il merito possano sentirsi attratti  – valorizzi lo Stato. Ma soprattutto deve riuscire, con azioni efficaci e senza il ricorso a ulteriore burocrazia normativa, a far prevalere modelli comportamentali premianti, in quanto improntati al valore e all’impegno individuale, esaltando l’iniziativa privata e l’intraprendenza personale. Solo così potrà tornare a indurre ciò che al momento è oltremodo importante: la fiducia dei giovani nello Stato stesso.

Perché non vi sia più un rapper che abbia bisogno di denunciare, cantando, tutto il disagio dei giovani capaci, quelli che dalla corruzione, oggi, più di altri sono impoveriti:  “E’ follia stare qua nel miraggio / Che basti essere capaci / Quanti ne ho visti scavalcarmi / Rampolli Rapaci / Raccomandati / Quanti ne ho visti fare viaggi / E dopo non tornare / Restare / Spaccare / Affermarsi / Qui non c’è il mito di chi si è fatto da solo / Perché chi si è fatto da solo di solito è corrotto / Se sei un ragazzo ambizioso/ In un sistema corrotto / Non puoi fare il botto / E non uscirne più sporco /…/ Nessuno osa e nessuno dà un occasione/ Impantanati in queste sabbie mobili / Si muore comodi / Lo Stato spreca i migliori uomini” (Marracash, Sabbie Mobili).

 

 

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)

 

 

 

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7 Responses

  1. Gianfranco

    “Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)”

    questa, per me, e’ la ciliegina sulla torta.

    un cordiale saluto.
    Gianfranco.

  2. Veramente il è il concetto di “migliori” che è relativo.
    Per “lo stato” o “status quo” il migliore è colui che è in grado di mantenere la continuità dell’esistente senza alterare gli equilibri e introdurre novità. Quindi i migliori sono i “rampolli raccomandati”.
    Con tutte le critiche che si possono fare al “boom economico” del dopoguerra, ma obiettivamente Mattei, Cefis, Bernabei, Marcora… sono emersi dopo una guerra persa

  3. Vitalba Azzollini

    Più che una ciliegina, un atto dovuto, che sostanzia l’assunzione di una responsabilità totalmente personale: per cui firmo ogni scritto col mio nome e cognome, e solo con quello ne rispondo.
    Saluti a lei.

  4. Gianfranco

    Signora,
    le chiedo scusa perche’ rileggendomi potrei darmi del sarcastico e non era mia intenzione.

    Condivido in toto cio’ che ha scritto – sono stato via dall’Italia tanti anni e ci ho rimesso 4 anni a riabituarmi allo schifo – e, semplicemente, ho trovato buffo che dopo tutto quel buon senso da lei espresso si trovasse necessario (non Lei trovi necessario, ma in generale) specificare che non bastano piu’ nemmeno nome e cognome: occorre comunque un disclaimer.

    Ho trovato quella riga surreale. Tutto qui.

    Le chiedo ancora scusa.

    Porgendole cordiali saluti
    Gianfranco.

  5. DDPP1953

    Gentile dr.ssa,
    sono d’accordo con lei, ma vorrei proporle un facile gioco lessicale.
    Con un programma di elaborazione testi provi a cambiare la parola “Stato” (ripetuta sei volte nell’articolo) con le parole “Nomenclatura Burocratica”.
    Il senso finale del suo articolo un po’ si modifica, ma ne migliora la portata “ideologica”.

    Consiglio a tutti di leggere un libro di qualche anno fa: “Nomenklatura” di Voslenskj.
    Viceministro dell’Unione Sovietica descrive una società incredibilmente uguale a quella italiana di oggi.

  6. Dino Caliman

    Cantieri. http://www.magellanopa.it/kms/files/Proposte.pdf Finanziano le ricerche e poi non li ascoltano. Si tratta di passare“dal dire al fare”:le politiche di innovazione delle amministrazioni devono produrre miglioramenti concreti e duraturi per le imprese,quali effetti delle politiche pubbliche, capaci di
    rendere affidabili le amministrazioni nei confronti delle imprese.

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