5
Ott
2013

I limiti della spending review

E’ istituita presso il Ministero del Tesoro una Commissione tecnica per la spesa pubblica. La Commissione opera, sulla base delle direttive del CIPE, con il compito di:

a) compiere studi ed effettuare analisi sui metodi di impostazione del bilancio pluriennale programmatico e sulla struttura della spesa  per i programmi e i progetti (…);

b) trasmettere al Parlamento, ogni anno, una relazione sui costi e sugli effetti finanziari derivanti da provvedimenti e da leggi di spesa;

c) effettuare l’analisi del funzionamento di organi ed enti pubblici e della speditezza delle relative procedure di spesa;

(…)

Questo testo potrebbe ragionevolmente rappresentare la parte iniziale della norma 2013 con la quale il governo ha nominato pochi giorni fa Carlo Cottarelli, attualmente direttore del Dipartimento fiscale del FMI, Commissario straordinario per la spending review, ruolo che fu già ricoperto nel governo Monti da Enrico Bondi. Invece è tratto dall’art. 32 della legge n. 119 del 30 marzo dell’anno 1981, un terzo di secolo fa. In quella data il governo in carica era un quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pri guidato da Arnaldo Forlani e il Ministro del Tesoro, promotore della norma, era Nino Andreatta. Ai tempi, inoltre, le competenze economiche erano ripartite tra diversi dicasteri: oltre al Tesoro il Bilancio e programmazione economica (nel marzo 1981 guidato da Giorgio La Malfa), le Finanze (guidate allora da Franco Reviglio) e le Partecipazioni statali (De Michelis).

In quello stesso marzo 1981 erano resi noti i dati macroeconomici e di finanza pubblica dell’anno precedente: nel 1980 il Pil era cresciuto del 3,1% (-2,5% nel 2012, -1,7% previsto nel 2013), il debito pubblico era il 56% del Pil (133% nel 2013), la pressione fiscale il 31% (44% nel 2013) e la spesa pubblica complessiva il 42% (52% nel 2013). E’ evidente da questi dati come la spending review di allora, così come tutte le successive, non abbia funzionato. Doveroso allora chiederci perché. Di chi è la colpa del non aver fermato la spesa? Degli esperti che dovevano indicarne i modi o dei politici che si sono succeduti e che avevano piena facoltà di spendere senza tener conto delle indicazioni degli esperti?

Non si può non ricordare al riguardo come il Ministro Tremonti abbia in due occasioni nello scorso decennio provveduto a sopprimere la Commissione di esperti istituita da Andreatta nel lontano 1981. Evidentemente riteneva che non vi fosse alcun bisogno del controllo ‘tecnico’ delle decisioni di spesa, ritenute prerogativa esclusiva della politica. La prima soppressione avvenne nel 2002, durante il suo primo mandato di ministro, tuttavia poiché Padoa Schioppa ripristinò una nuova commissione con funzioni analoghe con la finanziaria 2006 per il 2007, egli provvide  a sopprimerla nuovamente con la manovra di finanza pubblica del 6 agosto 2008, pochi mesi dopo l’insediamento del governo Berlusconi IV. Quel è la logica di tali scelte? Direi che è evidente se si rovescia la famosa affermazione di Einaudi: perché conoscere se si intende deliberare senza tenerne conto?

La logica della spending review è invece proprio quella einaudiana: conoscere gli sprechi pubblici per poterli poi rimuovere. Ma attenzione perché nel settore pubblico voler conoscere non coincide necessariamente col voler provvedere e voler provvedere non  coincide col riuscirvi. Vi è infatti una differenza profonda tra sprechi e inefficienze che possono formarsi nel settore privato e quelli del settore pubblico. Nel privato lo spreco rappresenta un errore ed è nell’interesse delle aziende e dei loro azionisti rimuoverlo nella maniera più rapida ed efficace.  Inoltre,  poiché in esse funziona  adeguatamente la catena dell’autorità, è possibile agire per la rimozione dei costi inutili tramite processi di comando e controllo che partono dai vertici. Nel settore pubblico il controllo gerarchico non funziona allo stesso modo: governo e Parlamento  cercano attraverso le norme di modificare i comportamenti degli organi sottoposti ma i medesimi, sfruttando carenze nel sistema degli incentivi e delle penalizzazioni e asimmetrie informative, cercheranno di non farsi condizionare e di non adempiere a quanto richiesto oppure di farlo solo formalmente ma  preservando la vecchia sostanza all’ombra di nuove apparenze. Il governo cerca di spostare le truppe burocratiche così come i generali spostano le divisioni sul terreno, muovendo bandierine normative sulle carte geografiche delle leggi, tuttavia mentre le divisioni si spostano secondo i comandi, non essendo dotate di obiettivi e volontà autonome, gli organismi pubblici si guardano bene dal farlo.

Anche il concetto di spreco è profondamente diverso: nel privato è un errore, va rimosso al più presto; nel pubblico è una scelta. E’ infatti la modalità attraverso cui diversi soggetti, quali politici e burocrati e controparti esterne che non detengono diritti di proprietà sulle risorse collettive, si appropriamo di quote delle medesime prima che siano irrimediabilmente utilizzate nell’interesse dei cittadini. I proprietari di imprese private si appropriamo di costi risparmiati che assumono il nome di profitti. I controllori di organizzazioni pubbliche non hanno invece diritti di proprietà sulle risorse e non possono trattenere il residuo di una loro gestione efficiente. L’unico modo per appropriarsi di risorse è dunque quelle di ‘sprecarle razionalmente’ su voci di costo specifiche indirizzabili a loro vantaggio.

Gli esiti di queste prassi sono le tre C: 1) clientelismo (assunzioni, promozioni, concessioni e altri vantaggi contro voti); 2) corruzione (assegnazione di commesse e altri favori a fornitori/controparti generosi e riconoscenti); 3) corporativismo (assegnazione di privilegi, concessione di regole ad hoc a categorie specifiche contro l’interesse generale). Gli sprechi di costo nel settore pubblico sono solo manifestazioni collaterali del clientelismo, della corruzione, del corporativismo. Possibile che la spending review sia in grado di rimuovere questi fenomeni? O comunque di agire sulle loro conseguenze in termini di spesa pubblica? La risposta è negativa, non aspettiamoci che sia in grado di risparmiare sui costi eliminando gli sprechi; al più potrà ridurre i costi attraverso il taglio dei servizi.

Possiamo pensare agli enti della nostra PA come a un insieme di macchine con motori più  meno difettosi che permettono loro di percorrere a bassa velocità poca strada con un pieno di risorse (finanziarie) messo periodicamente a disposizione dai cittadini. Da un lato i motori sono sottoperformanti ma dall’altro vi sono anche buchi, appositamente creati, attraverso i quali qualcuno sottrae sistematicamente carburante. Come intervenivano  i provvedimenti di Tremonti? La logica dei tagli lineari era semplicemente quella di ridurre di un X per cento ogni  pieno annuale di carburante indipendentemente dalla differenti performance delle macchine. In tal modo tuttavia anche i risultati si sarebbero accorciati in misura corrispondente. Con meno carburante auto con motori non revisionati fanno meno strada.

Come interviene invece la spending review? Il suo compito fondamentale è di calcolare i consumi efficienti di ogni macchina e di assegnare ad ognuna il carburante necessario per compiere in condizioni di efficienza la distanza assegnata. Essa non è tuttavia in grado di far diventare efficienti le macchine. E’ una riforma del carburante, non dei motori. Qui invece bisognerebbe riprogettare da capo ogni auto e  sostituire col tempo l’intero parco macchine.

 

 

 

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