19
Feb
2014

I 60 mila di piazza del Popolo contano più della marcia dei 40mila

I 60 mila piccoli imprenditori che ieri da tutta Italia hanno riempito piazza del Popolo a Roma dovrebbero pesare come e più della mitica marcia dei 40mila quadri Fiat a Torino, nell’ottobre del 1980. Lo slogan è per molti versi identico, “lasciateci lavorare”. Ma nell’azienda torinese era rivolto al sindacato, che bloccava le fabbriche. Mentre ieri a piazza del Popolo era allo Stato, che lo indirizzavano gli artigiani e commercianti. Per questo è un grido disperato di allarme più grave. Non si raccoglie con una svolta collaborativa nelle relazioni industriali. È lo Stato, che in questi anni non ascolta e peggiora le cose. E cambiare lo Stato è molto più difficile.
Oggi, però, è necessario. Rispetto al 2008, a fine 2013 abbiamo dovuto registrare la cessazione di circa 135 mila imprese, tra artigiani e commercianti. E’ una quantità spaventevole. Ha significato centinaia di migliaia di disoccupati aggiuntivi. Ora, è giusto, come si ripete sempre, battersi per la manifattura italiana e per il traino che essa esercita nell’export. Ma non va dimenticato che, sui meno di 23 milioni di occupati ufficiali italiani, la manifattura pesa per circa 5,7 milioni. Se si sottraggono i circa 3,6 milioni di dipendenti pubblici e il ridotto apporto dell’agricoltura, il resto è tutto rappresentato da lavoratori nel settore dei servizi al mercato domestico. Il che significa che, senza una svolta a favore della piccola e piccolissima impresa che si addensa nel terziario, non riprende né l’occupazione né il reddito disponibile ai consumi, quello necessario a rilanciare il mercato interno.

Proprio per questo, tra quelli lanciati ieri dai presidenti di tutte le associazioni artigiane e commercianti di Rete Imprese Italia, lo slogan più efficace è stato quello lanciato da Giorgio Merletti, capo di Confartigianato. Altro che “Matteo stai sereno”, ha scandito evocando un hashtag che va per la maggiore su twitter. “Matteo stai preoccupato”, piuttosto.

Preoccupato è anche poco, a dirla tutta. Per come politica e lobby hanno costruito negli anni il sistema pubblico italiano, sono i “piccoli” a pagare il conto più amaro. Sovvertendo l’articolo 53 della Costituzione in materia di progressività del sistema fiscale, sono i “piccoli’ ad essere gravati di un Total Tax Rate di 25 e anche 30 punti superiore a grandi imprese e banche, che possono dedurre minusvalenze assai più estese avendo perimetri d’impresa più vasti. L’IRAP che colpisce dipendenti e beni strumentali, ed è da pagare anche se si è in perdita, su una piccola impresa artigiana e commerciale grava per intero, visto che non può esternalizzare né delocalizzare. Nella bolletta energetica, ai “piccoli” non toccano i maxi sconti riservati ai manifatturieri energivori. Sono gli artigiani, i più colpiti dagli aggravi procedurali inseriti nel contratto di apprendistato, mentre le medie e grandi imprese ricorrono ad altre tipologie d’inserimento al lavoro. La piccola impresa era soggetta a un maggior costo del denaro dal sistema bancario prima della crisi, rispetto alla grande, ed è quella che ha subito la peggior restrizione di credito, nella crisi.

E, naturalmente, per concludere in bellezza, quando l’artigiano e il negoziante si trovano a dover chiudere bottega per la crisi, per loro non c’è nessun tipo di ammortizzatore sociale.

Si comprende bene che, sommandosi a tutto questo la martellante campagna pubblica che li addita come evasori fiscali seriali, artigiani e commercianti siano stati fin qui sin troppo trattenuti e composti, nelle loro reazioni di protesta. E che qualcuno, infatti, abbia tentato di scavalcarli con maniere assai meno composte di quelle viste ieri a piazza del Popolo, come l’eterogeneo e già spaccatissmo movimento dei “forconi”.
Nella Seconda Repubblica, che bisogna sperare davvero con Renzi premier si chiuda alle nostre spalle, questo mondo d’impresa ha sofferto di una crescente difficoltà di interlocuzione politica. Nella Prima Repubblica, ciascuna delle sigle confluite da pochi anni in Rete Imprese Italia aveva una sua precisa collocazione, nell’ambito del collateralismo sociale degli interessi a fianco vuoi della Dc, vuoi del Pci o del Psi. Era un mondo imperfetto e consociativo. Ma è stato sostituito dal nulla, come catena di rappresentanza.

Avrebbe potuto essere una condizione di sviluppo per tutti, a patto che la politica fosse stata capace di guardare con attenzione agli interessi complessivi di sviluppo del mercato interno. Ma non è stato così, perché la lotta selvaggia “Berlusconi sì – Berlusconi no” ha finito per privilegiare da ambo le parti interessi “pesanti”, dai piani alti banco-industriali a frange autonome più combattive e in grado di bloccare l’Italia come in passato gli autotrasportatori, oggi ridotti anch’essi all’angolo dopo aver raccolto per anni sussidi ad altri negati.

La novità da cogliere, maturata in questi anni di desertificazione della piccola impresa, è quella di artigiani e commercianti che non chiedono affatto di tornare a canali privilegiati con la politica, un tempo sanciti a suon di milioni di voti raccolti e di eletti in Parlamento. Al contrario, ciò che ieri hanno chiesto i manifestanti è semplicemente una politica che la pianti di ignorare la realtà, una realtà che vede i “piccoli” iniquamente svantaggiati. Una politica che non si fermi ai casi – pur essenziali – delle multinazionali che vogliono abbandonare l’Italia, e che riempiono ogni sera i talk show televisivi, con tanto di “tavoli” privilegiati ogni volta aperti per negoziare sgravi e agevolazioni. Una politica che guardi al cuore profondo delle oltre 4 milioni di microimprese italiane, un cuore che oggi sanguina mortalmente.

Ha fatto bene la Cgil, ieri, a dichiarare esplicitamente il suo sostegno a chi stava a piazza del Popolo. E anche Confindustria, in questi anni, si è aperta a battaglie unitarie e di sistema ma dovrebbe farne di più, perché artigianato e commercio sono fondamenti senza i quali la manifattura non prospera in un deserto. Allo stesso tempo, gli apparati delle diverse sigle di artigiani e commercianti, CNA, Casa Artigiani, Confesercenti, Confcommercio etc, dovrebbero capire che la base è stufa di microappartenenze e apparati burocratici, e vuole lotte unitarie e risultati.

Ora viene il difficile. Capire se la politica saprà innestarla davvero, la marcia diversa che serve. Se ciascuno è figlio della propria storia, allora Matteo Renzi, figlio di un piccolissimo imprenditore della distribuzione, e sindaco di una città in cui nel 1338 – attesta la “Nuova Cronica” di Giovanni Villani – i giovani a bottega erano un decimo della popolazione cittadina, cioè il doppio di quanti fossero all’Unità d’Italia e il quadruplo di oggi, dovrebbe avere meglio di altri il dna per capirlo. Vedere per credere, però.

You may also like

Mille giorni di Renzi: il voto sulle banche è..
Sul commercio mondiale l’Italia sta facendo autogol
Uno Stato pazzo: persino contro i tornado la PA è divisa in lotte di potere
2 mesi di Buona Scuola: 85mila cattedre scoperte. E non è colpa solo del governo..

11 Responses

  1. giuseppe

    Erano solo in sessantamila perché quasta gente, al contrario dei pensionati della Camusso, ogni tanto deve pure lavorare per portare a casa qualcosa. Ma se continueranno a taglieggiarli, a deriderli, offenderli ed insultarli, un bel giono saranno molti di più e incazzati come bestie. E non ci sarà nessuno che possa tenerli.

  2. Il problema, con Renzi, è che lui, essendo del PD, è tendenzialmente statalista e assistenzialista… culturalmente è lapiriano… quindi keynesiano… quindi è destinato implacabilmente a fallire. c’è anche molto altro, ma per i dettagli vi rimando, chi vuole, al “Quaderno n. 11”:

    http://lafilosofiadellatav.wordpress.com/i-maestri-2/pier-luigi-zampetti/i-due-e-book-sulla-lezione-di-pierluigi-zampetti/

    Per quanto riguarda i 60.000, bene, certo… ma il problema vero, non solo per loro ma per tutti i lavoratori, è che per il lavoro c’è l’urgenza di entrare nell’ottica della “società partecipativa”:

    http://lafilosofiadellatav.wordpress.com/fiatpomigliano-darcomelfi-come-mettere-a-frutto-la-lezione-di-pier-luigi-zampetti-per-risolvere-il-conflitto-tra-capitale-e-lavoro/

  3. roberto

    Egregio,

    siamo troppo buoni e asserviti. Quello che stà accadendo in questo periodo è fuori da ogni logica democratica e costituzionale.
    Forse non ci rendiamo conto che siamo di fronte ad una presa di posizione di alcuni poteri dello stato per non cambiare assolutamente nulla al costo di forzature evidenti della legge e sulla pelle degli altri, purtroppo il gattopardo si ripete e devo notare che il servilismo mediatico è inguardabile salvo rarissime eccezioni.
    Poi si stupiscono quando Grillo dice apertamente a Renzi che lui è il vecchio travestito da nuovo.
    Vedremo, tante parole come al solito, e pochissimi se non nulli fatti. Con le imprese che chiudono e per mesi hanno pensato a come tirare a campare loro stessi..Renzi , grande rivoluzione o GRANDE BLUFF..DA QUELLO CHE SI E’ VISTO FINO AD ADESSO ..FATE VOI.
    saluti
    RG

  4. Alberto

    Alla buonora, caro Giannino ! Credo sia la prima volta che lei (che qualcuno) affermi in maniera cosi’ chiara una realtà cosi’ scomoda come altrettanto netta ed inequivocabile: che cioè la stragrande maggiornaza dei lavoratori in Italia siano occupati in aziende commerciali ed artigiane al di sotto dei 10 ddetti, laddove titolare, famiglia e dipendenti si confondono nei ruoli e nei destini. Devo dire che la cosa non sembrava molto chiara neanche alle cosiddette rappresentanze di queste categorie (Confcommercio etc.) e nemmeno ai sindacati (CGIL etc.) che pure, questi ultimi in virtu’ proprio del loro collateralismo, avevano in passato mostrato ben piu’ lungimiranza ed intelligenza: si pensi al ruolo svolto nel dopoguerra in regioni a loro amiche, prima fra tutte l’Emilia Romagna, dove queste piccole realtà hanno potuto propagarsi e creare la ricchezza di quelle popolazioni. Allora i Sindaci costruivano i Villaggi Artigiani in edilizia convenzionata, dando la possibilità a tantissimi di “mettere su casa e bottega” a condizioni favorevoli. Questo consenti’ il nascere e lo svilupparsi di elevatissime professionalità che erano particolarmente gradite alla rete delle imprese maggiori. I grandi nomi della Moda Italiana (per lo piu’ scatole vuote) hanno potuto crescere e prosperare proprio grazie a questo tipo di Aziende (che oggi soffrono e chiudono, disperdendo un patrimonio insostituibile). Lo stesso capitò in settori piu’ “tecnologicamente dotati”, a partire dalla Ferrari stessa (in larga parte costruita fuori dallo stabilimento di Maranello) e dall’industria ceramica.

    Una manica di disgraziatissimi, quanto arroganti ed ignoranti professorucoli di Milano, al traino del loro preside lo sciagurato Monti, arrivò a teorizzare la pulizia etnica nei confronti della maggioranza della forza lavoro in Italia. Non piu’ Villaggi Artigiani ma Equitalia ed Agenzia delle Entrate, con il risultato di miseria e disoccupazione che è sotto gli occhi di tutti.

    Ma lei continua, imperterrito, ad indicare “una maggiore integrazione europea” come la soluzione di tutti i mali. Vede, Giannino, se in questi ultimi 4 o 5 anni, si fosse dedicato un centesimo delle energie, anche intellettuali, spese per dimostrare l’indimostrabile e che cioè l’Italia avrebbe bisogno dell’UE e della sottostante ideologia, per cercare una via d’uscita dalla dittatura impostaci, a quest’ora ne saremmo probabilmente fuori non solo in maniera indolore, ma pure con grande beneficio per tutti noi.

    Caro Giannino, lei pensa che se invece delle due o tre decine di migliaia di euri di debito (su un fatturato che era di 2 milioni in media) io avessi 2 o 3 miliardi di debito, la mia banca mi svillaneggerebbe come fa ?
    Quando penso a queste cose, nel corso delle mie notti insonni qui nel Nord della Scandinavia, dove ho dovuto emigrare per lavorare (alla tenera età di anni 66) e per scappare da Befera che mi addita come un criminale incallito, non posso non provare odio profondo per una classe di politici imbelli ed ignoranti anche di senso comune.

    Allora, le dicevo, lei davvero pensa che se solo avessimo studiato un po’ di piu’ come uscire da questa galera UE in cui ci siamo ficcati e se solo facessimo valere un po’ di piu’ le proporzioni incommensurabili del nostro debito, tali da mettere, ove non onorato, Germania, Francia e Scandinavia sul water per tutto il prossimo secolo, non avremmo evitato questa disfatta disonorevole ?

  5. Mike_M

    Per capire come stanno le cose, basta fare un passeggiata per le strade di una città qualsiasi del (ex) ricco Nordest. Ogni giorno, ci sono attività commerciali e artigianali che chiudono, senza che al loro posto non se ne aprano di nuove. Un deserto di cartelli “vendesi” e “affittasi”. Il terziario di vicinato sta morendo; sopravvivono solo i centri commerciali e qualche supermercato. Nonostante tutto ciò, qualche politicante ha ancora il coraggio di parlare di commercianti e artigiani evasori…..

  6. ALESSIO DI MICHELE

    Vero ! Bello ! E a febbraio 2013 tutti costoro dov’ erano ? Vi ricordate, quando Fermare il Declino prese percentuali da prefisso telefonico piemontese ? Stavano a blaterare a piazza del Popolo ?

  7. Francesco_P

    Egregio Alberto, 20 febbraio 2014,
    le evidenti e stridenti contraddizioni dell’Europa e dell’euro non possono farci dimenticare che la nostra debolezza rispetto ai partner europei – vale a dire la capacità di far valere le nostre ragioni – dipendono dagli squilibri dei conti pubblici e dall’arretratezza del nostro sistema burocratico e istituzionale. Anche il nostro sistema industriale è in buona misura obsoleto, avendo le imprese difficoltà a promuovere l’innovazione,principalmente per l’ipertassazione, le restrizioni sul credito e per i tempi biblici della burocrazia e della giustizia.
    Oggi i contribuenti italiani pagano quasi il 6% del PIL di interessi sul debito pubblico.
    Se il declino dell’Italia prende avvio 22 anni fa con il Governo Amato, bisogna considerare che il rapinatore notturno dei conti correnti era la diretta conseguenza degli squilibri accumulati grazie alle politiche clientelari e del “posto pubblico facile” degli anni precedenti. Già all’epoca eravamo in torto con gli altri Paesi europei eravamo eccessivamente indebitati e non riuscivamo a rimanere nello SME. Prima di Amato avevamo la sensazione di crescere, ma stavamo già scavandoci la fossa.
    Quello che fa rabbia è che allora pagammo di tasca nostra, ma non servì a nulla perché lo Stato continuò ad incrementare la spesa pubblica confortato dalla possibilità di crescere la tassazione senza limiti ad ogni sforamento.
    Se dovessimo andare in default, una bella rapina dai conti correnti e dai dossier titoli rappresenterebbe l’ancora di salvezza delle banche europee. Altro che usare il debito arma di ricatto; ci tireremmo la zappa sui piedi.
    Insomma o si taglia drasticamente la spesa pubblica o conteremo sempre meno in attesa della fine più ingloriosa possibile.

  8. marco

    speriamo che anche costoro vogliano prendere in mano il loro destino confidando nella competizione meritocratica e non nelle clientele generalmente meno rischiose e più remunerative
    nonostante i 40.000 evocati la meritocrazia è una lontana visione nella maggioranza delle grandi imprese pubbliche certamente ma troppo sovente anche private, dove tra parenti e raccomandati l’aria è abbondantemente tossica anche sopra i 500 dipendenti (e per carità di patria non scendo al di sotto dove sovente il monte salariale del parentado supera “meritocraticamente” il 15-20% con la dinamicità propria dei gatti…di marmo però).
    Abbiamo troppo sovente percorso sentieri tortuosi per le licenze come quelli di tassisti o tabacchini, di imprese di pulizie monopoliste, di appalti predestinati.
    La crisi oltre ad eliminare i meno reattivi spero eliminerà pure il malcostume cambiando le propensioni lavorative di TUTTI
    un po’ di cucina british non guasta, basta comportarsi COERENTEMENTE non basta predicare bene come Grillo ed avere comportamenti ben diversi come lui fa con plastica leggerezza

  9. paolo del carlo

    come sempre un analisi giusta e di buon senso!!! cosa quest’ultima che in italia è merce molto rara e chissà perchè nessuno ha il coraggio di parlare ed esprimere fuori dai denti il propio pensiero.
    La verità fa male ma è con quella che ci si confronta non con le novelle raccontate a chi si pensa stupido
    Un abbraccio sincero a te paolodelcarlo1@virgilio.it

  10. Alberto

    Gentilissimo Francesco,

    Non avrei mai immaginato che le mie scarne considerazioni avrebbero potuto smuovere le lucide osservazioni di una persona preparata come lei. Sono soltanto un povero ingegnere ex imprenditore e che ha attraversato tutto questo mondo nelle varie epoche della sua esistenza: non sono un economista. Apprezzo molto le sue opinioni che sono, per me, fonte di ulteriore ispirazione e riflessione.

    Sono d’accordissimo con lei quando afferma che la tassazione ci sta uccidendo (tutti quanti, non soltanto i piccoli-medi imprenditori nonchè la maggiornanza del paese) ma non sono d’accordo quando dice che le ns. imprese sono obsolete. Da attore e da persona a conoscenza dei fatti e che ha viaggiato in lungo ed in largo anche per la Germania, le posso assicurare che le ns. aziende sono tuttora insuperate in termini di tecnologie, conoscenze, capacità di lavoro e produttiva, fantasia. Sul piano produttivo e tecnologico i tedeschi non hanno nulla, assolutamente nulla, che noi già non possediamo e da piu’ tempo di loro. La posso rassicurare nella maniera piu’ categorica e piu’ assoluta che l’unico problema (e l’unico nemico) del ns. tessuto produttivo è solo e soltanto lo stato italiano.

    Liberati da questi tristi figuri che ancora si accaniscono sul cadavere dell’imprenditoria italiana (e guardi che ci metto tutti, proprio tutti, da Napolitano a Berlusconi e Monti, da Grillo a Letta ed a Renzi) tutti noi potremmo riprendere a volare. Glielo dice uno che ha una discreta conoscenza del mondo (di tutto il mondo) industriale e, in particolare, delle aziende e del sistema produttivo tedesco.

    Ho cominciato la mia carriera combattendo contro il colosso industriale giapponese, sovvenzionato e foraggiato oltre ogni immaginazione dal proprio stato. Potrei dirle e raccontarle aneddoti e cose che lei nemmeno immagina: nessuno potrebbe qui ed ora immaginare cosa lo stato giapponese ha fatto per le proprie aziende. E non sto dicendo che sia stato giusto e sacrosanto. Tutt’altro, ritengo sia stata una grandissima jattura, alla fine, anche per loro. Ho viaggiato per il Sud Est asiatico quando le automolbili delle polizie di quei paesi erano Alfa Romeo (si ricorda la Giulia ?) per poi ascoltare Romiti affermare che il mercato di elezione della FIAT era il mercato “domestico” che, nella sua accezione corrispondeva con l’Europa. E questo mentre i gispponesi invadevano l’Europa di loro fabbriche. Quella stessa FIAT che godeva di denaro statale come e forse piu’ dei giapponesi stessi.

    No, Signor Francesco, non siamo tecnologicamente arretrati: non lo siamo perchè ogni imprenditore italiano ha sempre privilegiato l’ammodernamento dei propri impianti ad ogni altro tipo di investimento. Si chiama cultura industriale, che ci viene da tanto lontano. Dagli anni ’30, quando la ns. industria aeronautica era la piu’ avanzata del mondo. Lei lo sa che il primo aereo al mondo con motore a turbogetto fu italiano ? Che il Reggiane 2000 e poi il 4000 erano gli aerei piu’ avanzati al mondo durante la seconda guerra mondiale ? Quando i tedeschi ancora avevano aerei da caccia con carrello fisso (gli Stukas) ? Il problema era che l’Italia non aveva l’acciaio con cui costruire altro che i prototipi …

    I tedeschi non ci deludono mai: sia quando si tratta di farsi mettere sotto ai mondiali di calcio, sia quando si tratta di arrivare dopo di noi nelle piu’ importanti innovazioni tecnologiche (lei pensi alle fortune fatte da BMW AUDI e Mercedes con il ns. common rail, regalato loro dalla Magneti Marelli, finita poi come sappiamo)

    Ma non è questo ciò di cui volevo parlare, anche se andava detto, se non altro per sgomberare il campo da equivoci che possono pure allignare nella mente dei non addetti ai lavori.

    Lei giustamente. da economista, mi par di capire, teme la rapina di conti correnti e di titoli: tipo Cipro, se mi è permessa la semplificazione e tanto per intenderci. A parte il fatto che l’Italia, con i suoi 60 milioni di abitanti, la sua cultura industriale, la sua capacità produttiva, la sua organizzazione sociale, non è nè Cipro nè la Grecia (e neanche la Spagna, per inciso), io credo che i problemi vadano affrontati profondendo al meglio le intelligenze disponibili.

    Se oggi siamo d’accordo in tanti nel dire che l’ingresso in Europa è stato un tragico errore, ottenuto per di piu’ con l’ideologia e l’inganno ed in spregio dei trattati (si legga Guarino, a proposito), non si può sottacere il fatto che nessuno, proprio nessuno, si è mai posto seriamente il problema di come uscirne. Per lo piu’ si è assistito ad esercizi funambolici da parte di chi ha inteso imporre il proprio punto di vista sulla bontà della perniciosa ideologia europeista e sui ìdanni che ne sarebbero derivati a chi non vi si fosse adattato.

    Chi ha lavorato in grandi e piccole aziende, in grandi e piccoli progetti, sa che non si va da nessuna parte se non vi è il concorso di tutte le professionalità nella risoluzione dei problemi. Sa che questi si risolvono con grandi sforzi di intelligenza e, spesso e volentieri, con l’esercizio di quel che oggi si indica come “il pensiero laterale”.

    Personalmente è ancora vivo in me il ricordo di ciò che accadde in Asia alla fine degli anni ’90: tempeste valutarie, valute che crollavano, la finanza di tutti quei paesi nel mirino di una speculazione che la faceva da padrona assoluta. Fino a quando un primo ministro di un paese additato da America ed Europa come velleitario e ridicolo, sto parlando della Malaysia e di Mahathir, non solo apri’ le porte al rientro di tutti i capitali che erano fuggiti all’estero (no question asked !) e senza il pagamento di alcuna tassa, ma altresi’, dichiarò la propria valuta inconvertibile, fissando un rapporto di cambio favorevole al proprio paese. Tutto questo in mezzo al dileggio internazionale di cui fu fatto oggetto, a partire dal FMI, Banca Mondiale, Vicepresidente USA, il no. 2 di Clinton, lo stesso che poi cominciò a sragionare di “climate change”.

    Le potrei raccontare mille altre cose, anche sul fallimento dello stato sociale in salsa nordica, se volesse, ma per il momento mi fermo qui: se soltanto usassimo meglio le ns. intelligenze, invece di paventare rischi indimostrabili, una soluzione la troveremmo. Magari una soluzione inconsueta, non ortodossa nè da manuale, ma efficace … Insomma, non è facendo i piagnoni che potremo uscire da questo orrore senza fine.

    A proposito, cos’è meglio: un orrore senza fine od una fine orrenda ?
    Grazie a lei, in ogni caso, per i preziosi stimoli.

Leave a Reply