27
Giu
2011

Etienne de La Boétie: un best-seller della libertà

Conoscendo le normali inclinazioni dell’editoria italiana e degli stessi lettori, è una buona notizia scoprire che al ventesimo posto della classifica dei libri di saggistica più venduti figuri in questi giorni il Discorso sulla servitù volontaria, un pamphlet scritto a metà del sedicesimo secolo da un giovanissimo Étienne de la Boétie (1530-1563) e ora edito pure da Chiarelettere, che ha ripreso la tradizione di Fabio Ciaramelli. Fa piacere che La Boétie entri in molte case poiché è uno testi più cari a quanti appartengono alla tradizione liberale e libertaria, ma più in generale a tutti coloro che antepongono le ragioni del singolo alle pretese dello Stato.

Non a caso una delle molte sue edizioni in lingua inglese include una prefazione di Murray N., Rothbard (e quel medesimo testo compare anche nell’edizione pubblicata da Liberilibri, nel 2004, insieme a una postfazione scritta a quattro mani da Nicola Iannello e dal sottoscritto). Ma nel 1994 il pamphlet era già stato pubblicato dalla palermitana Sellerio e dal napoletano Procaccini e l’anno successivo erano stati addirittura in tre a metterlo in catalogo: La Rosa (nella collana “La libertà nella storia” curata da Carlo Galli), Olivares (accoppiato con Jonathan Swift) e l’Istituto italiano per gli studi filosofici. Ma poi altri edizioni escono da Anarchismo, La Vita Felice ed Edizioni di storia e letteratura.

Siamo di fronte, insomma, a un piccolo best-seller e al tempo stesso a un evergreen, ma soprattutto a uno dei grandi precursori del liberalismo classico: una teoria che inizia a muovere timidamente i primi passi proprio quando questo poeta, che fu anche il migliore amico di Michel Montaigne, s’interroga con tanta serietà sul potere e sul perché molti obbediscano senza reagire di fronte ad esso.

Prima del sedicesimo secolo avevano visto la luce molte importanti riflessioni sulla libertà: sia all’interno della filosofia greca che nella tradizione religiosa ebraico-cristiana, come pure entro altre culture. Ma il liberalismo non è tanto e soltanto una concezione che colloca al centro della scena la libertà degli uomini: esso esprime soprattutto la *resistenza* della società civile di fronte allo Stato moderno e alla pretesa del sovrano (oggi diremmo: della classe politica) di porsi al di sopra dell’ordine sociale, dominandolo e “organizzandolo”.

Quando poco dopo il 1550 il giovanissimo La Boétie scrive il suo Discours sur la servitude volontaire (che ebbe una grande diffusione anche con il titolo di *Contr’un*) Niccolò Machiavelli aveva già consegnato alla posterità Il Principe e, con esso, quella drammatica “sottrazione” del sovrano ad ogni vincolo morale. Jean Bodin, al contrario, doveva ancora realizzare Les Six Livres de la République, l’opera con cui l’idea di sovranità era destinata ad acquisire un’autonomia e una pienezza mai prima conosciute. Il Discours di La Boétie – al centro anche di complicate diatribe filologiche, di cui dà conto pure Ragghianti nel recente Rétablir un texte: Le “Discours de la servitude volontarie” d’Etienne de la Boétie, edito nel 2010 da Olschki) è dunque legato a un’epoca durante la quale il pensiero politico europeo stava elaborando una creatura nuova, lo Stato, destinato ad aggredire sempre più l’autonomia dell’individuo e la facoltà di autogovernarsi delle comunità volontarie, fino a mettere progressivamente in discussione la possibilità stessa degli uomini di interagire e cooperare pacificamente.
Di fronte a questa storia (che è la  nostra  storia: quella vicenda che ha conosciuto la propria funerea apoteosi nella tragedia dei totalitarismi), La Boétie comprende il carattere illegittimo della coercizione istituzionalizzata così come sta prendendo forma in Francia e, oltre quei confini, in altre parti d’Europa. Egli avverte l’ingiustizia di una società in cui un solo uomo (con l’aiuto di qualche collaboratore) impone il proprio volere a masse sterminate di sudditi, i quali vengono dominati e oltraggiati. La Boétie comprende la natura di tale violenza e accetta di farsi scandalizzare da essa.

Non senza avvertire un qualche turbamento di fronte alla misteriosa sproporzione esistente tra il numero di quanti comandano e di coloro che ubbidiscono, il giovane letterato e giurista del Périgord pone dunque mano ad un’analisi razionale del potere e in tal modo denuncia quella complessa catena di favori, clientele e privilegi grazie ai quali il ceto politico riesce a difendere la propria posizione e a diffondere l’illusione – per usare le parole che Frédéric Bastiat impiegherà tre secolo dopo – che grazie ad esso “tutti possano vivere alle spalle di tutti”.
Ma un’altra straordinaria caratteristica di questo testo è che in esso la libertà politica è concepita già in senso pienamente liberale: quale libertà dal potere. Per il francese, godere della libertà politica non significa altro che poter perseguire i propri scopi senza essere aggrediti dalle istituzioni e senza aggredire altre persone. Questa autonomia si regge, da un lato, su un’idea della libertà quale diritto individuale naturale, ma rinvia al tempo stesso al riconoscimento dell’inviolabilità della persona che è di fronte a noi.

La libertà di cui ci parla La Boétie non è insomma la libertà socialistaricercata da quanti chiedono alle istituzioni pubbliche di educarli, nutrirli, curarli e divertirli; e neppure la libertà arbitraria di quanti perseguono l’aspirazione a poter fare qualunque cosa, senza riconoscere nella vita e nella proprietà altrui un limite invalicabile.

Affermando una concezione talmente radicale della grandezza di ogni singolo essere umano, questo testo appare ancora oggi – dopo molti secoli – un duro atto d’accusa contro i monarchi e, più in generale, contro i governanti; ma rappresenta pure una ben precisa denuncia della passività di quanti accettano lo strapotere della classe politica o cercano in ogni modo di trarre vantaggio dal monopolio della violenza legale.

Al riguardo è significativo quanto Montaigne ci riferisce nel momento in cui afferma che l’autore del Discours avrebbe certo preferito essere nato a Venezia piuttosto che a Sarlat. Perché non è affatto sorprendente che La Boétie abbia giudicato una iattura il dover vivere entro il primo grandioso esperimento statuale ed è probabile che anche in epoche successive avrebbe mostrato un’aperta preferenza per quella che Gianfranco Miglio ha chiamato “l’altra metà del cielo”: quell’insieme di realtà istituzionali europee che – dalla Serenissima alla Confederazione elvetica, alle Province Unite – non adottarono il modello istituzionale vincente (nel corso dei secoli sempre più ossessionato dai temi della centralizzazione burocratica, dell’omogeneità nazionale, della continuità territoriale, e così via).

Contestando che il reale sia sempre e comunque razionale, ma anche rigettando ogni riduzione della legittimità alla legalità, La Boétie inaugura un pathos che sarà proprio del liberalismo nelle sue espressioni più nobili e che nel ventesimo secolo abbiamo ritrovato soprattutto in talune esperienze del dissenso. La condanna dei governanti non comporta comunque la piena assoluzione delle vittime. Al contrario, nelle sue pagine sul “mistero dell’obbedienza” egli mostra come il potere nasca sempre in qualche modo da un consenso che si acquiescenza: per paura, ignoranza o interesse. Ed è proprio perché le cose stanno in questi termini che l’autore invita i propri simili a riconquistare la dignità perduta.

Molte catene non si spezzano solo in ragione del fatto che siamo abituati a considerare giusto e perfettamente “naturale” ciò che da tempo abbiamo dinanzi agli occhi. Per David Hume l’abitudine ha il merito di rendere sopportabile il dispotismo (dato che “consolida quello che altri principi della natura umana avevano imperfettamente costituito”), ma tutto questo già La Boétie l’aveva ben chiaro. Accettare di farsi *sorprendere dalla realtà*, d’altra parte, sarà proprio la sfida più difficile che egli proporrà ai suoi lettori.

Come sottolinea Rothbard, nel Discours sur la servitude volontaire è messo in evidenza che “se la tirannia davvero si basa sul consenso di massa, allora i mezzi naturali per il suo abbattimento sono semplicemente costituiti dal ritiro di massa di quel consenso”. Il che ci permette di constatare come fin dai suoi primi passi il pensiero liberale abbia saputo individuare proprio nel dialogo, nella persuasione e nell’educazione le uniche vere strategie verso il cambiamento; che sono poi le stesse armi a cui può fare ricorso oggi chi intenda continuare a cercare una “via d’uscita” per quanti non vogliono accettare i rigori dell’ordine costituito e l’apparente fatalità delle logiche che lo ispirano.

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