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Dic
2009

Efficienza, valutazione e responsabilità. La PA ha davvero un nuovo volto?

       

Con la L. 15/2009 “Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e all’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonchè disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei Conti” è iniziata la riforma della Pubblica Amministrazione italiana volta al raggiungimento dell’efficienza e dell’efficacia dell’attività amministrativa, grazie a l’introduzione  di principi della logica aziendale e di fornitura di servizi di qualità (in teoria dovrebbe essere così dagli anni Novanta). Essa può essere riassunta in 4 punti principali: nuovo ruolo del dirigente pubblico, riforma del sistema di contrattazione, introduzione di regole stringenti in materia di controllo e valutazione, razionalizzazione della spesa, quindi valorizzazione delle retribuzioni secondo i canoni della produttività e selettività. Bisogna precisare che tale riforma è stata oggetto di numerose critiche e attacchi preventivi ed ideologici, basti osservare il fatto che la Cgil non ha sottoscritto l’Accordo quadro degli assetti contrattuali, firmato a Roma il 22 gennaio 2009 dalle altre maggiori sigle sindacali, nonchè critiche bipartisan per la”cura Brunetta” contro l’assenteismo dei dipendenti pubblici, che si è però così ridotto di circa il 45%.

Sicuramente la riforma messa in atto è dovuta partire rompendo nettamente col modello precedente, e cercando di combattere il luogo comune del “dipendente pubblico fannullone” e aumentando così le operazioni trasparenza. Il principio di massima trasparenza è il filo conduttore di tutte le disposizioni attuative della legge delega, nel pieno assolvimento così dell’art.117, c2. lettera m) della Costituzione, ed esplicitate dal decreto legislativo 150/2009 (vedi art.11). La trasparenza è anche il corollario di tutte quelle iniziative correlate, quali Linea amica, Reti amiche, Mettiamoci la faccia, Operazione trasparenza.

Tali operazioni assolvono anche il compito di rilevare la soddisfazione dell’utente, segnando una netta inversione di rotta nella visione della pubblica amministrazione non più solo come longa manus dello Stato burocratico, ma come servizio erogato ad un cliente che quindi valuta in quanto consumatore e facendo ciò permette all’amministrazione, che ne abbia le capacità, di migliorare e alla politica di implementare le riforme in corso d’opera.

Tornando all’analisi del testo normativo – perchè nel nostro Paese le politiche pubbliche si iniziano a valutare partendo rigorosamente dalle norme – rimangono dei dubbi che si chiariranno meglio nella fase attuativa. Intanto l’art.2 del dlgs 165/2001 così come riformato dall’art.1 della L.15/2009, in cui si introducono novità in merito alla derogabilità delle disposizioni applicabili solo ai dipendenti pubblici. Se prima, nella vecchia versione, era possibile derogare ad una disposizione di legge attraverso lo strumento del contratto o dell’accordo collettivo, ora la contrattazione collettiva potrà modificare una disposizione di legge solo se espressamente previsto dalla legge stessa. Questa disposizione limita fortemente le possibilità di rinegoziazione delle parti e gli elementi di flessibilità, ritornando su una linea che privilegia l’elemento unilaterale che segna un ritorno al passato.

La riforma sembra aver donato un nuovo ruolo ai comitati di settore, o meglio gli ha assegnato finalmente un ruolo. Infatti nell’art.47 del famoso dlgs 165/2001 il comitato di settore aveva un ruolo di indirizzo che nella pratica si è sempre tradotto in un nulla di fatto: i comitati di settore non venivano quasi mai convocati in via preventiva, cioè prima dei rinnovi contrattuali, e Aran si sedeva al tavolo direttamente con le OO.SS., venendo a mancare così una parte in causa della triade (Aran, pa, e organizzazioni sindacali). Ora, l’art.47 ai cc.1 e 2 è stato ridisegnato in modo da dare più vigore ai comitati, quindi alle esigenze particolari della pa, legate al caso per caso, al contesto, al territorio: Aran è  tenuta a convocare i comitati prima di ogni rinnovo contrattuale e negli altri casi in cui e’ richiesta una attivita’ negoziale, nonchè deve informare il Governo e i comitati delle trattative in corso. Si è cercato di passare da un ruolo di indirizzo ad uno direttivo, almeno sulla carta.

Passando a guardare le novità in materia di responsabilità dirigenziale e di ridisegno del ruolo del dirigente della pubblica amministrazione, è da segnalare la regolazione del rapporto tra organi di vertice e dirigenti titolari di funzioni apicali, in modo da garantire in ambito amministrativo, l’attuazione dell’indirizzo politico (art. 6 c.1, L.15/2009). Il dirigente è però colui che esercita i poteri del datore di lavoro pubblico, con le modalità anche del datore di lavoro privato “nelle determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro” (art. 5 d.lgs 165/2001). Da questa doppia veste, che ripropone la doppia natura del dipendente pubblico (funzionario dello stato con rapporto di lavoro regolato da norme di diritto privato) viene in risalto un problema ancora non bene risolto. Da un lato infatti il tasso di sindacalizzazione del dirigente pubblico è di circa il 70% (66,84, secondo dati Aran), il che vuol dire che in una fase di contrattazione il dirigente interpreta la parte sia del datore di lavoro e sia di dipendente della PA, rendendo ancor più difficile sanare il conflitto principale-agente in un contesto dove l’interesse di categoria (di dirigente) è nettamente prevalente. Quindi bisogna chiedersi se abbia in realtà ancora senso regolare il rapporto dirigenziale secondo il classico metodo della contrattazione collettiva, o se invece non sia più utile studiare altre forme di rinegoziazione del rapporto più “privatistiche”, senza ritornare perciò a forme legalistiche pre- anni Ottanta. Il decreto 150 non sembra però affrontare la questione.

In ogni caso, risolvere il problema della responsabilizzazione del dirigente è sempre più necessario. Oltre al fenomeno dell’ “opportunismo dell’agente”, la PA è cronicamente portata all’inefficienza anche per la “debolezza del principale”, per cui si cerca di aumentare la produttività delle amministrazioni legando questo obiettivo al necessario contenimento della spesa pubblica. Per Si connette così la responsabilità alle promozioni, all’aumento delle retribuzioni e alla riconferma dell’incarico stesso (L.15/2009, art. 6, c.2, lettera b ): significativa è la disposizione del nuovo art.21 del dlgs 165/2001 come modificato dal dlgs. 150/2009: “Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione (…) ovvero l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano (…) l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale (…)”. Anche per questo il lavoro nelle PA viene organizzato secondo un’ottica di miglioramento continuo, il che è sicuramente innovativo per l’amministrazione e la mentalità italiana fortemente burocratica. Il legislatore cerca di esplicare concetti aziendalistici quali merito, performance, responsabilità organizzativa, di risultato: il decreto nello specifico introduce l’obbligo per le amministrazioni di redigere un piano triennale di performance, poi ogni anno si è tenuti a presentare un rendiconto con i risultati conseguiti e in seguito si opera una valutazione tra performance dirigenziale e performance dei dirigenti che deve aggregarsi intorno al dato medio. I problemi concreti nasceranno per i dirigenti che devono valutare i propri sottoposti, cercando di evitare di farsi catturare da quelle logiche tipiche dell’impiego pubblico, per cui i costi sono diffusi, nessuno paga, ma tutti beneficiano, che ha per molto anno fatto sì che le retribuzioni aggiuntive date sulla base della produttività e dei risultati fossero invece degli aumenti a pioggia, basati sul calcolo opportunistico del do un po’ a tutti per non scontentare nessuno. E’ giusto però anticipare che non tutte le mansioni sono valutabili in termini di risultato e produttività, per cui in realtà sembrano molto meno problematici gli aumenti retributivi una tantum o legati all’anzianità: tale ragionamento si adatta a categorie ad esempio quali quelle del personale ATA, o di bassa competenza e qualificazione.

Anche il dirigente finirà nelle grinfie della valutazione che sarà attuata sia in itinere dalla “Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche” che validerà i metodi e i criteri per la misurazione delle performance interne (art. 13 dlgs 150/2009) e  che “opera in posizione di indipendenza di giudizio e di valutazione e in piena autonomia”, ma soprattutto una volta definiti i parametri orientativi lascia autonomia di valutazione alle amministrazioni (art.16, c.6). C’è da immaginare che le amministrazioni si allineeranno poi tutte ai modelli valutativi delle amministrazioni più virtuose, le cui performance saranno rese pubbliche. Viene previsto  il cosiddetto Organismo indipendente di valutazione della performance (art.14 dlgs 150/2009): ogni amministrazione deve dotarsi di un tale organismo, composto da uno a tre membri nominati dal vertice politico-amministrativo previo parere della Commissione. L’intento è quello di favorire il dialogo competitivo tra dirigenti e dipendenti, nonchè la ricontrattazione della posta in gioco. Molto importante è anche la previsione dell’art.13,c.10 del dlgs 150  del Valutatore indipendente che si pronuncerà sull’operato della Commissione di garanzia trascorsi cinque anni dall’inizio del suo mandato. Tale disposizione rivoluziona almeno la mentalità del pubblico amministratore e dei suoi controllori. Viene meno l’idea di infallibilità. Nella PA la valutazione svolge un ruolo fondamentale, essendo spesso assenti o strutturalmente deboli i meccanismi di mercato che servono a misurare e correggere le performance delle organizzazioni e a segnalare, attraverso l’exit, l’insoddisfazione di clienti/utenti. Il valutatore indipendente è il vero censore ex post dell’impianto della riforma, la logica che sta alla base di questa previsione è quella per cui la valutazione interna talvolta è falsata in partenza dalle logiche dell’organizzazione stessa, mentre se fatta da soggetti esterni è più utile all’apprendimento nel lungo periodo, il risultato più difficile da concretizzare. Ovviamente bisogna vedere chi sarà nel concreto questo soggetto valutatore e quali strumenti utilizzerà.

Detto ciò, si attende l’esame del secondo decreto di attuazione delle riforma Brunetta che introduce la previsione dell’azione collettiva come forma di tutela giudiziale nei confronti delle inefficienze della PA e dei concessionari di pubblici servizi. L’idea portante ed innovativa è quella di legare la soddisfazione della pretesa avanzata da uno o più cittadini al promovimento di un controllo esterno di tipo giudiziale sul rispetto, da parte delle pubbliche amministrazioni, degli standard (di qualità, di economicità, di tempestività) loro imposti. Si garantisce così una elevata performance delle strutture pubbliche nei confronti di tutta la collettività.
Questo nuovo strumento di tutela , viste anche le problematiche che porta con sè la normativa sulla class action (L.99/2009) in termini di tempi ed effettiva riscattabilità dei danni subiti, sembra però volere reintrodurre il concetto di sanzione come postulato del concetto di controllo e a non voler privilegiare metodi, che già esistono, di ricorso extra-giudiziale. La logica della punizione, è dimostrato anche dalle vittorie dei difensori civici soprattutto nei paesi scandinavi e anglosassoni in non permette l’apprendimento e l’individuazione delle cattive situazioni fisiologiche, ma solo delle patologie. La rinegoziazione, “l’aggiustamento”, lasciato alle parti, invece permette meglio il ridisegno degli interessi e la loro più rapida soddisfazione, nonchè il miglioramento della cultura del servizio, che ad esempio i difensori civici dovrebbero premurarsi di promuovere. Tale ottica non si identifica con una cultura della colpa. Inoltre, qualsiasi tentativo di promuovere la cultura del servizio attraverso la legge non farebbe che rafforzare un approccio limitato e legalistico, poco utile al benessere del singolo e alla sua soddisfazione in termini utente-consumatore.

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