3
Mar
2017

Cosa frena davvero i disoccupati dal farsi imprenditori?

Senza un’imprenditorialità diffusa e attiva non può esistere produzione e distribuzione di ricchezza. Questo è vero sempre, ma lo è a maggior ragione in tempi di recessione prolungata. Ciò ha spinto verso l’adozione di politiche di sostegno e promozione del fare impresa: ma nessuna di queste sembra aver sortito un effetto rilevante. Perché? Se lo sono chiesti gli autori del volume «Disoccupazione, imprenditorialità e crescita. Cosa frena davvero i disoccupati?» (a cura di Raffaele De Mucci e Rosamaria Bitetti, edizioni Rubbettino, pp. 117, € 12), i quali hanno realizzato un’analisi “dal basso”, per capire cosa freni davvero i disoccupati – tipici destinatari di una politica di incentivazione all’imprenditorialità – dall’avviare autonomamente un’attività economica, intervistandone direttamente un campione rappresentativo. Se si vuole, infatti, adottare una politica efficace bisogna prima studiare a fondo le cause del problema: finché si compiono scelte assunte da una visuale dirigista, queste saranno inesorabilmente destinate al fallimento.

I risultati dell’indagine statistica tornano pertanto molto utili: su un campione di 750 intervistati, spicca come principale causa ostativa al “fare impresa” l’attitudine personale (31%), seguita dall’accesso al credito (23%), dalla situazione congiunturale (19%), dalla paura di corruzione e mafia e dall’assenza di competenze economico-manageriali (a pari merito, 8%), dai costi regolatori (7%) e dall’impossibilità di fare affidamento su un network di competenze (4%). Come nota Bitetti nel saggio introduttivo del volume, la carenza di attitudine personale è giustificata in maniera preponderante da un’avversione al rischio: il 9,3% degli intervistati preferirebbe svolgere un lavoro dipendente; l’8,3% si dice preoccupato di poter perdere tutto; il 7,3% non vuole fare debiti. Il problema è quindi di natura “culturale”: non si è pronti ad assumere i rischi che costituiscono elemento ineliminabile dell’attività imprenditoriale e si preferisce una prospettiva di vita più “assicurata”, come può essere un lavoro dipendente. Utilizzando la celebre definizione di Frank H. Knight, il campione intervistato non sembra attrezzato opportunamente per affrontare l’“incertezza” in cui opera tipicamente l’imprenditore (e forse, non sembra neanche comprenderla appieno). L’attitudine culturale dei disoccupati italiani è quindi aggravata da una mancanza di strumenti basilari per l’intrapresa personale: e ciò sembra confermato anche dalle risposte sulla materia dell’accesso al credito. Posti di fronte alla difficoltà del reperimento delle risorse, i disoccupati intervistati pensano immediatamente ai propri risparmi personali (e, di fatti, la loro scarsità li dissuade dall’impegnarsi in un’attività economica autonoma), mostrando notevole diffidenza rispetto alla possibilità di farsi finanziare da un creditore (e così la debole conoscenza del funzionamento del mercato del credito diventa un ostacolo evidente alla diffusione di progetti imprenditoriali).

La poca consapevolezza che il campione mostra di avere delle coordinate fondamentali dell’imprenditorialità risulta evidente anche alla luce delle altre risposte fornite: è sorprendente la sottovalutazione che esso compie della rilevanza di adeguate competenze tecnico-manageriali e dell’impatto (proibitivo, ma non percepito) dei costi di regolazione. Ed è preoccupante poi la preferenza dichiarata per un sostegno da parte delle istituzioni o di reti amicali rispetto allo sviluppo di un network di conoscenze (per comprendere come le preferenze personali siano influenzate anche dal contesto istituzionale in cui esse si esprimono, si consiglia la lettura del saggio di Fallocco che si trova nel volume). Che fare, dunque? La soluzione passa per quella che De Mucci, nel testo, definisce come una vera e propria “rivoluzione culturale”: «piuttosto che “cercare lavoro”, le nuove generazioni devono assumere la prospettiva di “crearsi un lavoro”». Come emerge dal sondaggio, infatti, sono gli under 35 i più propensi ad avere una cultura imprenditoriale ed è quindi su di loro che si può (deve) puntare con più convinzione. Ai giovani si deve quindi indicare l’imprenditore, unico vero produttore di ricchezza, come modello sociale positivo, come prospettiva di vita desiderabile.

Ovviamente – ed è proprio De Mucci a ricordarlo – l’efficacia di qualsiasi investimento di tipo “culturale” non può prescindere dalla creazione di un ecosistema istituzionale favorevole all’impresa libera e privata: non è, dunque, spuria la correlazione che lega la 48° posizione dell’Italia – la più bassa tra i Paesi OCSE, se si esclude il Messico – nel Global Enterpreneurship Index (che misura la diffusione dell’indice di imprenditorialità) al nostro 50° posto nella classifica Doing Business della Banca Mondiale, che è basata sulla “facilità” di fare impresa (peggio di noi, nell’UE, fanno solo Grecia e Malta).

Finché “intraprendere” significherà scontrarsi con mostruosi costi di regolazione, coriacee barriere all’ingresso, burocrazia, legislazione e giustizia “nemiche”, è difficile assistere a una rinascita della diffusione della cultura d’impresa. E come ci mostra, però, l’analisi in esame, è vero anche il contrario. Al diminuire dell’interesse verso l’attività di impresa, infatti, corrisponde un aumento della diffusione dell’ignoranza del peso economico di questi ostacoli. Ed è per questo improbabile che essi diminuiranno, fintantoché sempre meno persone saranno costrette ad affrontarli. Del resto, come ci insegnò Mises, i governi diventano liberali solo quando sono costretti ad esserlo dai loro cittadini.

@GiuseppePortos

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