13
Ott
2017

Addio fallimenti, ma non è un successo

Addio fallimenti. È legge la riforma del diritto fallimentare che, appunto, tra le altre cose sostituisce il termine “fallimento” con la più politicamente corretta “liquidazione giudiziale”. Una riforma che è davvero una mezza rivoluzione, e non soltanto lessicale, se non altro perché è la prima volta in settant’anni che si ragiona a 360 gradi sull’insolvenza, intesa non più solo come fenomeno patologico, ma anche come evento fisiologico allo svolgimento di un’attività economica. Proposito, insomma, sacrosanto.

Limitare i vincoli che oggi impediscono a chi ha avuto un insuccesso imprenditoriale di avviare una nuova attività è sicuramente cosa buona e giusta, per l’economia in generale. Funziona così in tutti i Paesi occidentali e c’è un motivo: allo sconforto e allo stigma sociale si accompagna infatti spesso un netto ridimensionamento della propensione all’imprenditorialità, generato proprio dalla paura del fallimento. Non sarà certo cambiare nome all’istituto o prevedere la liberazione dai debiti entro tre anni a far riemergere nella testa degli italiani la voglia di rischiare e di fare impresa, ma è pur sempre un passo in avanti.

Del resto, è stata la stessa Commissione europea a raccomandare caldamente agli Stati membri riforme che dessero “una seconda possibilità” agli imprenditori onesti che falliscono, ormai quattro anni fa. L’altra faccia della medaglia, però, è dietro l’angolo. Perché, se da una parte è un incentivo a rischiare, la cancellazione dei debiti è però anche un incentivo a indebitarsi. E questo, di riflesso, potrebbe generare un effetto uguale e contrario nei creditori, determinando un forte aumento del costo dell’accesso al credito non garantito.

Una delle ragioni per cui tale evenienza è scongiurata nei Paesi europei che prevedono la cancellazione dei debiti dopo un determinato periodo di tempo è che il processo di tutela del credito, in quei Paesi, è molto più rapido ed efficiente che da noi. Per questo, la riforma avrebbe potuto e dovuto incidere in profondità sulla tutela del credito, oltre che del debito. Lo ha fatto? Solo in parte.

Ad esempio, non c’è oggi nessuna garanzia sul fatto che i soggetti chiamati a gestire la composizione assistita della crisi saranno dotati delle necessarie competenze specifiche nella materia aziendale ed in quella giuridica. Si sarebbe potuto ricorrere agli ordini professionali di commercialisti e avvocati, e non alle sole camere di commercio. Ma non solo. Estremamente critica è la parte della norma in cui si prevede che la procedura di composizione della crisi possa avere uno sbocco giudiziale: è chiaro che nel momento in cui si prevede l’intervento del tribunale e la possibilità di rendere nota la crisi ai terzi, si espone l’impresa a conseguenze drammatiche sotto il profilo del buon esito di una procedura alternativa al fallimento e si inducono i terzi che sino a quel momento non erano stati ancora toccati dalla crisi dell’imprenditore ad assumere iniziative individuali che non farebbero altro che far precipitare la situazione, rendendo a quel punto inutile ogni tentativo di supporto.

Lo sforzo di produrre una riforma generale del sistema fallimentare italiano rischia di essere inutile se si perde di vista l’obiettivo fondamentale della tutela del credito, che deve essere inteso non solo come il diritto al pagamento vantato da un singolo creditore, ma piuttosto come una componente fondamentale del ciclo economico. Una non adeguata tutela del credito, che non tiene conto degli effetti devastanti che l’insolvenza di un imprenditore produce sulle imprese terze, non fa che allargare l’enorme divario che già esiste tra chi opera all’interno del circuito produttivo e la disciplina giuridica che quel circuito vorrebbe regolamentare.

Ecco allora che gli interventi semantici previsti (cancelliamo la parola “fallimento” e la sostituiamo con “procedura di liquidazione giudiziale”) riformano il sistema solo in apparenza, se nessun cambiamento veramente incisivo viene apportato in concreto al sistema di liquidazione dell’attivo, che deve essere strutturato in modo da garantire almeno un recupero parziale del credito in tempi brevi. Sotto questo profilo la riforma è carente, perché introduce un sistema che non semplifica in nessun modo le procedure di liquidazione, ma al contrario introduce costruzioni barocche (tra le tante, un ente dovrebbe certificare la ragionevole probabilità di soddisfazione dei crediti insinuati al passivo) che non fanno altro che rendere ancora più burocratica una fase che dovrebbe invece essere snella e flessibile, così da poter ridurre davvero la durata delle procedure fallimentari che in Italia, stando agli ultimi dati disponibili tratti dal Registro delle Imprese, è di circa 7 anni.

Twitter: @glmannheimer

You may also like

La giustizia come azienda?
La crisi greca e l’euro: la lettura di George Tavlas
La spesa pensionistica – di Alessandro Barchiesi
L’eterna emergenza del #debito pubblico italiano

1 Response

  1. pasquale_gravante

    In Campania, una bancarotta semplice arriva fino a 15 anni per la chiusura.

    E se non è garantita la riservatezza e la snellezza della procedura non si va da nessuna parte. QUINDI CORPO DI PROFESSIONISTI ALTAMENTE QUALIFICATI.
    Sapete cosa significa per un imprenditore in difficoltà rendere pubblica la situazione? SUICIDIO CERTO.

Leave a Reply