9
Feb
2011

Abbiamo un’Autorità!

Ieri la Commissione Attività produttive della Camera ha dato il via libera al nuovo collegio dell’Autorità per l’energia. I cinque componenti – il presidente Guido Bortoni e i commissari Alberto Biancardi, Luigi Carbone, Rocco Colicchio e Valeria Termini – hanno raggiunto la maggioranza dei due terzi necessaria a superare l’ultimo scoglio. Questa è un’ottima notizia perché è scongiurato il rischio di lasciare il mercato sguarnito, allo scadere della prorogatio del collegio uscente il 13 febbraio, in un momento particolarmente delicato. Delicato, e questo il punto, non tanto sotto il profilo regolatorio quanto sotto quello normativo. Il prossimo 3 marzo scade il termine per il recepimento del terzo pacchetto energia dell’Unione europea. L’aspetto più controverso è quello sulla separazione delle rete gas.

Le prime decisioni dell’Autorità, insomma, riguarderanno l’implementazione delle scelte compiute dal governo e dal parlamento. Il modo migliore di fare gli auguri alla nuova cinquina per l’impegno che gli è richiesto è, allora, quello di cercare di fare il punto – punto politico, essenzialmente – sui grandi problemi in campo. Non che altri aspetti delle direttive comunitarie non siano rilevanti (sul mercato elettrico e sulle rinnovabili, in particolare). Ma, chiaramente, la vera grana è quella sulla rete. Tema sul quale Bortoni, in audizione, si è immediatamente smarcando, sottolineando (correttamente, sul piano formale) che la scelta sul modello di unbundling non compete al regolatore ma alla politica. Dunque, che ne pensano i partiti?

L’attuale maggioranza ha una posizione ambigua. Il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, ha annunciato che l’esecutivo intende planare su una forma “morbida” di separazione, che cioè “convergerà” sulla soluzione scelta dall’Eni. Questa posizione non è mai stata particolarmente elaborata (che io sappia) dal Pdl, mentre soddisfa le richieste della Lega, che su questi temi pare sia ispirata dal senatore Dario Fruscio, già membro del consiglio di amministrazione dell’Eni (honi soit qui mal y pense). Il precedente ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, si era spesso scontrato col presidente uscente dell’Autorità, Alessandro Ortis, proprio sul tema, ma il sottosegretario Stefano Saglia sembra moderatamente favorevole allo scorporo, anche se temperando questo orientamento col realismo politico. Eppure bisogna riconoscere proprio a un precedente governo Berlusconi la decisione più radicale in questo senso: la legge 290/2003 dispone esplicitamente l’obbligo per Eni di scendere al di sotto del 20 per cento di Snam Rete Gas. Il termine per tale operazione, inizialmente fissato al 2007 e poi rimandato al 2008 è stato fatto saltare dal governo Prodi, per parte di Rifondazione comunista & dintorni, ma – sebbene a oggi resti indefinito – non è mai stato annullato (cosa peraltro di dubbia compatibilità con la normativa europea).

Ancora più complessa (per usare un delicatissimo eufemismo) è la posizione del Partito democratico. Pochi mesi fa, o, a seconda dei punti di vista, un’era geologica fa, il Pd depositò una serie di emendamenti alla legge stabilità, tra cui uno esplicitamente favorevole alla separazione proprietaria. Ieri sul tema è intervenuto il capogruppo in Commissione, Andrea Lulli, in merito alla “assoluta necessità strategica di separazione proprietaria della rete gas da Eni”. Parole giuste e incoraggianti, se non fosse che arrivano dopo una settimana di imbarazzato e imbarazzante silenzio e a nomine compiute, nonostante il tema – con una serie di interventi di Romani, Catricalà e Scaroni innescate dall’audizione di Bortoni – sia stato al centro dell’attenzione pubblica. Non è dunque del tutto chiaro – e mi scuso se, pur consapevole di peccare, sono tentato di pensar male – se il Pd voglia davvero la separazione di Snam Rete Gas, oppure se la voglia solo quando ha la certezza di essere ininfluente.

Maggioranza e opposizione hanno di fronte una finestra di opportunità: da qui al 3 marzo possono imprimere una svolta al mercato. Se non lo faranno, e se non lo faranno con nettezza e chiarezza, sarà chiaro che la concorrenza e il buon funzionamento del mercato sono meno interessanti, per il nostro ceto politico, della tutela delle rendite monopolistiche. E poco o nulla varranno le proteste, timide e inutili, del giorno dopo, se – quando si è stati in grado di fare la differenza – si è stata zitti o inattivi.

In breve, la mia domanda è questa: cosa pensa il Pdl? Cosa pensa il Pd? E cosa pensano gli altri partiti la cui posizione non è ancora del tutto chiara (in particolare Idv, Fli, Udc, eccetera)? L’unica cosa chiara è la posizione della Lega e di Sel, entrambi coerentemente favorevoli al trasferimento di risorse dai consumatori ai monopolisti (credo che una volta si chiamasse Stato imperialista delle multinazionali, i cui bastioni più solidi sono ironicamente ex secessionisti e sempre comunisti). Ma gli altri, cosa pensano? E cosa sono disposti a fare? Dovrebbero parlare ora e parlare chiaro: lamentarsi dopo non sarà inutile, sarà patetico.

Tutti sappiamo dare buoni consigli, quando non possiamo più dare cattivo esempio.

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