20
Ago
2009

A Jackson Hole, banchieri al capezzale

In queste ore comincia a Jackson Hole – Wyoming, la trentunesima conferenza  annuale organizzata dalla FED di Kansas City, appuntamento rituale estivo in cui tutti i maggiori banchieri centrali del mondo si ritrovano per fare il punto sulla situazione in corso. Francamente, non ho mai capito perché i media italiani diano pressoché nulla copertura a tale appuntamento, che insieme alle sessioni della BIS a Basilea (BRI se usate l’acronimo italiano) è una delle pochissime sedi nelle quali i banchieri centrali si confrontano in maniera aperta: oltretutto, mentre la riservatezza che grava sulle riunioni BIS è proverbiale e pressoché a prova di bomba, a Jackson Hole invece vengono – sia pure con qualche ritardo – rilasciati i papes che vengono formalmente presentati e discussi. Certo, non possiamo sapere quel che stasera i 45 banchieri centrali riuniti quest’anno si diranno tra loro, ma è proprio grazie ai papers di Jackson Hole che abbiamo potuto ricostruire, negli anni addietro nei quali Greenspan regnava sovrano, come egualmente per esempio proprio economisti della BIS osarono sfidarlo muovendo ai suoi tassi d’interesse l’accusa  di essere destabilizzanti e moltiplicatori di rischio.

Mi rendo conto che l’informazione italiana è nella media sprovvista dei fondamentali anche più elementari per capire – e dunque per spiegare – quanto sia assolutamente essenziale la politica monetaria per ogni aspetto della vita economica, e anzi proprio ieri sera con un carissimo amico a cena commentavamo la sconsideratezza per la quale ormai anche nei corsi di laurea in economia – qui in Italia – capiti di dare un esame di politica monetaria come obbligatorio se e solo se l’indirizzo è quello di economia bancaria e degli intermediari finanziari. Tuttavia, come avrete capito se ci seguite in questo nostro modesto blog a più voci, è proprio essenzialmente oggi un problema di politica monetaria quello che abbiamo di fronte a noi. Eppure niente, qui in Italia i giornali preferiscono dedicare colonne e pagine intere alle vicende di M&C dell’Ingegner De Benedetti , poco più che una scatola vuota con in pancia il controllo solo di una modesta e dissestata fabbrica di carta alluminata per cibi, come se si trattasse della lotta per Gerusalemme tra cristiani e mori.

Per dirne una: la velocità di riduzione del deficit delle partite correnti americane sul resto del mondo – una delle voci centrali per “riequilibrare” la domanda interna USA di consumi che manca al mondo per trainare la ripresa, sostituendola con eventuale altra domanda altrove – è un problema che dipende innanzitutto dai tassi d’interesse.  Nel 2008 gli USA hanno registrato uno sbilancio ancora pari a 731 miliardi di dollari, l’euroarea circa 200, l’Europa centrale e orientale circa 170, l’Australia poco più di 40. Dalla parte di chi sta in attivo, cioè i produttori di risparmio che ne finanziano i consumatori, il Giappone con il segno più a quota 160 bn, i Paesi petroliferi del Golfo a quota 340 bn, e prima di tutti la Cina, in surplus per più di 420. Sulla bilancia dei pagamenti pesa infatti come componente essenziale il carry trade, che finora ha reso estremamente remunerativo comprare dollari a poco prezzo per impegnarli in attività su valute più remunerative.

Anche il deficit commerciale dipende dalla politica monetaria, perché gli 821 miliardi di sbilancio USA nel 2008, pur in contrazione rispetto agli anni precedenti, possono rientrare o perché le famiglie americane consumano meno – come continua ad avvenire oggi, per rientrare dei debiti e per sfiducia visto che occorre risparmiare di più in previsione di maggiori tasse – oppure possono restare invariati o addirittura aumentare pur in presenza di restrizione dei consumi, se il dollaro si deprezza parecchio e dunque diminuisce il suo potere d’acquisto.

Non voglio continuare, perché su ogni questione che riguardi consumi, risparmi e investimenti, nonché impieghi finanziari per classi di asset e relativa duration, sono i tassi – insieme alle politiche fiscali, ma queste in seconda battuta – a costituire il primo metro di misura, di incentivo o disincentivo.  Diceva ieri Mario Seminerio, in suo commento a un mio post deliberatamente un po’ troppo critico verso la FED – sul gap tra tassi attuali e tasso ottimale secondo la legge di Taylor – che a questo punto – stante la necessità di riattivare il moltiplicatore monetario verso l’economia reale, che resta inadeguatamente basso malgrado il basso costo del denaro e la liquidità oceanica in cerca di impieghi –  la domanda vera da porre alla FED e alle maggiori banche centrali sarebbe: perché continuare a remunerare i depositi degli intermediari presso gli stessi istituti centrali? Ha perfettamente ragione. Un’altra domanda clou di politica monetaria, come vedete.

Tutte questioni che sono di gran lunga più importanti di ogni polemica sul presunto moltiplicatore keynesiano della spesa pubblica. L’ignoranza pubblica sulla moneta significa in fondo una cosa sola: meno rompiscatole in grado di eccepire, sul fatto che i risparmi di molti finiscano nelle mani di uno solo. Eppure sono proprio gli iperossessionati del come e del chi esercita il potere politico – che viene in seconda battuta su queste materia , rispetto ai banchieri centrali – ad essere i più deliberatamente  ignoranti di moneta. Ah, ma ora che mi sovviene, forse quest’anno i media italiani faranno un’eccezione: perché c’è Mario Draghi – come presidente del Financial Stability Board – ad aprire i lavori domattina a Jackson Hole, dopo Ben Bernanke. Voglia il cielo che non si limitino a dire solo se c’è qualche accenno polemico a Giulio Tremonti, come sono usi fare…

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11 Responses

  1. Dario

    Grazie per il post innazitutto.
    Non mi è chiaro dove dovrebbero essere remunerati i depositi degli intermediari se non negli istituti centrali o se prorpio non dovrebbero essere remunerati?
    Cito:” perché continuare a remunerare i depositi degli intermediari presso gli stessi istituti centrali?”

  2. Dario :
    Grazie per il post innazitutto.
    Non mi è chiaro dove dovrebbero essere remunerati i depositi degli intermediari se non negli istituti centrali o se prorpio non dovrebbero essere remunerati?
    Cito:” perché continuare a remunerare i depositi degli intermediari presso gli stessi istituti centrali?”

    Le riserve “libere” che le banche commerciali detengono presso le banche centrali, cioè quelle che eccedono il vincolo di riserva obbligatoria, in condizioni normali non vengono generalmente remunerate, o vengono remunerate a tassi molto bassi, perché in tal modo le banche sono incentivate a prestarle, ad esempio sull’interbancario. Una remunerazione delle riserve libere che sia competitiva con i tassi sull’interbancario finisce col prosciugare i flussi dell’interbancario, perché le banche trovano assai più confortevole e meno rischioso prestare alla banca centrale.

    La Fed pensa che il tasso sulle riserve libere sarà parte integrante della exit strategy, quando verrà il momento, perché in tal modo potrà alzare il tasso e impedire che le banche prestino ad imprese e privati, causando una bolla creditizia.

    La Riksbank, invece, dopo aver messo in sicurezza il sistema con garanzie e iniezioni di liquidità, ha ritenuto di non farsi gonfiare le passività, e sta imponendo un penalty rate sui depositi che le banche commerciali detengono presso di essa.

  3. Marco Gaiazzi

    Considerando che la ripartenza dei consumi interni parte dalla robusta ripresa dell’economia reale;
    considerando che la ripresa di imprese piccole, medie e grandi in tutto il mondo rappresenta l’elemento “sine qua non” per arginare la vera piaga di questa crisi,
    ossia la disoccupazione (che affligge i consumi interni);
    considerando che da più parti emerge con certezza che la immensa liquidità immessa
    sul mercato con politiche di “azzeramento tassi” sono state usate dalle banche per salvare i conti e fare profitti da trading con minimo trasferimento all’economia reale;
    non sarebbe positivo che da Jackson Hall emergesse la volontà di chiudere un pò i rubinetti del credito per dare un segnale meno accomodante?
    Grazie, marco

  4. Marco Gaiazzi :

    Temo di non avere compreso bene la domanda: lei sta chiedendo una stretta al credito? Perché in quel caso avremmo il panico. La stretta al credito è già in atto, negli spread che le banche applicano alla clientela, imprese e privati, e perdurerà finché le banche non avranno recuperato le perdite pregresse. E’ una strategia prociclica, perché credito stretto significa crescita depressa, che significa insufficiente sviluppo dell’occupazione e quindi di reddito e consumi. Ma non c’è altro da fare, vista la profondità ed ampiezza del danno, e visto che questa è una crisi da deleveraging che l’Amministrazione americana ha deciso di risolvere permettendo alle banche di riparare i bilanci con utili da trading e margini d’intermediazione elevati.

    E non c’è ovviamente modo (né sarebbe cosa utile, a mio giudizio) di erogare credito bypassando il sistema creditizio e finanziario.

  5. Marco Gaiazzi

    Ha inteso perfettamente la domanda. Ritengo che la questione ora non sia più quella di fornire liquidità, già sovrabbondante. Ma la qualità di come questa venga utilizzata. Sfuggita di mano ai “controllori”. Che le grandi banche salvate per il rotto della cuffia stiano erogando super bonus ai proprio dirigenti, o peggio, che la liquidità erogata affinchè le banche sostenessero le imprese, venga usata per altri fini è quanto di peggio potesse capitare.
    COme dice giustamente lei, la stretta è già in atto negli spread che le banche applicano. Ma il problema è proprio questo. Il salvataggio delle banche non era il viatico per arrivare all’economia reale?
    Dico solo che una mini stretta potrebbe un monito, un avvertimento. Allo stesso modo un primo passo verso un assorbimento di liquidità che altrimenti rischia di far schizzare l’inflazione alle stelle.
    grazie della risposta.

  6. Quello dell’inflazione mi pare in questo momento un problema non imminente, viste le condizioni del mercato del lavoro. Per avere inflazione occorre che esistano pieno impiego, consumi robusti e una disponibilità di credito abbondante. Nessuna di queste condizioni è in atto al momento. Esiste piuttosto una asset inflation, che di volta in volta causa l’ascesa delle borse o di alcune materie prime in modo sganciato dai fondamentali sottostanti, è vero. Ma questo problema lo abbiamo creato negli anni di Greenspan, e rimuoverlo richiederà tempo e volontà politico, che ad oggi purtroppo non vedo. Da qui il rischio di avere un’economia fatta di bolle ricorrenti. Come uscirne sarà il tema che condizionerà le nostre vite, nel bene e (soprattutto, temo) nel male, nei prossimi anni.

  7. Matteo

    Infatti in Zimbabwe abbiamo avuto negli ultimi anni pieno impiego, consumi robusti e una disponibilità di credito abbondante (in dollari dello Zimbabwe gentilmente stampanti dalla reserve bank di Harare).

  8. In Zimbabwe non abbiamo mai avuto alcun pieno impiego, in nessun momento, perché l’iperinflazione divora sé stessa in brevissimo tempo, e causa il crollo verticale dell’economia. Prendiamo questa come una facile battuta fine a sé stessa.

  9. marco gaiazzi

    torno sull’inflazione. non credo assolutamente che sia un problema non imminente. i dati sui prezzi alla produzione della scorsa settimana sono un primo significativo
    campanello d’allarme. ancor di più se non si pne un freno alla speculazione finanziaria
    sul petrolio. in men che non si dica ce lo ritroveremo a 100 $. così importeremo un bel po’ di inflazione oltre alla corsa dei prezzi interni.
    Se non saremo capaci di guardare in prospettiva commetteremo sempre gli stessi errori, cureremo sempre senza prevenire.
    Aspetto ancora una sua pregiata risposta sulla questione da me sollevata della “qualità della liquidità”.
    grazie

  10. I dati dei prezzi alla produzione americani di luglio, pubblicati la settimana scorsa, mostrano un raffreddamento: meno 0,9% mensile l’headline, contro consenso a meno 0,3%; meno 6,8% il tendenziale, contro attese a meno 5,9% e il dato di giugno a meno 4,6%; il mensile “core”, cioè al netto di alimentari ed energia, a meno 0,1% e il tendenziale a 2,6%, da 3,3%. Io in questi dati vedo disinflazione/deflazione, non inflazione.

    Ma anche se tali dati dovessero mostrare pressioni rialziste sui prezzi, l’inflazione la si crea a valle, sui prezzi al consumo. Se il consumatore non spende per disoccupazione e accresciuta propensione al risparmio, il risultato finale è solo un aumento della pressione sui margini di profittabilità delle imprese, non inflazione al dettaglio. Da una fiammata “speculativa” sulle materie prime (da eccesso di liquidità, intendo), con questo consumatore sulle ginocchia avremo solo sottrazione di reddito disponibile e in definitiva ulteriore rallentamento della crescita, non inflazione a livello core, che è quella che conta nella funzione di reazione delle banche centrali.

    Quanto alla qualità della liquidità, sono d’accordo con lei. Ma sono al contempo consapevole che al momento non sembra possibile separare la liquidità “buona” da quella “cattiva”, e quindi una stretta al credito sarebbe solo un suicidio.

  11. fabio maggi

    Egregio Signor Giannino,

    da profano le chiedo una delucidazione:
    mi pare che il ragionamento si snodi in questo modo. manca la domanda interna US per far ripartire l’economia mondiale. ora, condizione per farla ripartire è la riduzione del deficit delle partite correnti US. fattore per la riduzione è il tasso di interessi, tenuto ancora basso. se ho ben compreso, in un paese ad esportazioni nette negative, ceteris paribus, una diminuzione dei tassi di interesse non fa che svalutare la moneta ed avere come effetto complessivo un aumento del deficit.

    La ringrazio e le chiedo eventualmente consigli di lettura per impadronirmi dei fondamentali di questa materia.

    Con i migliori saluti, Fabio Maggi

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