1
Ott
2013

In (Destinazione) Italia la cultura è un’impresa.

Il patrimonio culturale italiano è valore riconosciuto, nonché elemento di attrattività indiscusso e, dati i tempi, che su tali profili si sia tutti concordi è già di per sé un successo. Invece, possono avanzarsi dubbi in ordine alle modalità in cui “Destinazione Italia” si propone di far leva su detto patrimonio per richiamare investimenti esteri idonei ad apportare risorse utili ai fini della crescita economica e occupazionale del Paese.

 

Condivisibile è la parte del programma ove viene evidenziato il vantaggio competitivo degli Stati con “un’identità storica e culturale forte” e in particolare dell’Italia, in considerazione delle opere d’arte in essa presenti. Fondata è, altresì, la strada indicata perché l’industria della cultura possa essere rilanciata, vale a dire il coinvolgimento dei privati in tale settore, dall’apporto di capitali alla sua concreta gestione. Tuttavia, “forme di forte defiscalizzazione per il mecenatismo culturale” non sembrano misure sufficienti a “incentivare la costituzione di fondi alimentati da donazioni private dedicati a grandi istituzioni culturali”. Sul tema si è recentemente espresso in un suo scritto Alberto Mingardi, il quale ha evidenziato come non bastino incentivi fiscali, vale a dire il “sostegno indiretto da parte dello Stato”, perché i privati siano sollecitati a investire nel settore considerato. Mingardi evidenzia come negli Stati Uniti “la capacità di attrarre fondi è parte integrante di un modello imprenditoriale di gestione delle attività culturali”. In Italia, al contrario, “l’idea di fondo sembra essere che il privato è cordialmente invitato a sanare i buchi di bilancio”, sì che “la deduzione fiscale e l’esposizione del marchio” non risultano elementi adeguati a richiamare capitali. Al fruitore di beni artistici e culturali, come al cliente di un’azienda, devono essere forniti servizi connotati da efficienza e prodotti di effettivo valore, comprendendone le esigenze e assecondandone le istanze. In sintesi, “una logica anche economica che alla cultura fa bene” è atta a stimolare un buon “fund raising”.

“Destinazione Italia” parrebbe andare in questo senso, poiché dispone di “affidare a privati e a operatori del terzo settore la gestione di beni culturali”. Purtroppo, la precisazione che ciò avverrebbe “in via sperimentale e con adeguate tutele e sotto controllo pubblico” tempera o addirittura vanifica il concetto, forse troppo audace per il sistema nazionale che sembra guardare con malcelato timore a quanto non è Stato e, più in generale, al mercato. Capitali privati e logiche pubbliche che ne indirizzino la gestione rappresentano una soluzione con cui, nel tentativo di far quadrare il cerchio, si rende tutto più confuso: purtroppo, questa sembra essere la strada seguita nel programma. Nel classico – e non in senso artistico – italico stile, l’ipotesi ivi delineata è volta a conseguire un improbabile compromesso. Una gestione da parte di privati sotto l’occhio vigile del pubblico controllore, infatti, combinerebbe metodi di azione e sistemi non solo diversi, ma addirittura incompatibili tra loro. L’uno sarebbe chiamato a verificare l’attività degli altri avvalendosi di criteri di valutazione sostanzialmente opposti, essendo diversa la logica di base. Non sembra irrealistico prevedere che ciò finirebbe per comportare complicazioni operative, moltiplicazione di enti di controllo, competenze dai confini indefiniti, conflitti tra soggetti coinvolti, la solita burocrazia e, dunque, ulteriori inefficienze. L’investimento del privato, a qualunque fine e in qualunque contesto effettuato, dunque anche a scopi di filantropia, si prefigge il profitto, che può essere variamente declinato, quindi anche in termini di interesse a che quante più persone siano attratte da buone iniziative culturali realizzate grazie ai fondi all’uopo impiegati. Detto fine deve poter essere perseguito secondo metodi discrezionalmente adottati: chi utilizza per qualunque progetto, anche di beneficienza, i propri capitali si assume comunque il rischio del risultato e, quale contrappeso, deve poter stabilire i criteri in base ai quali il rendimento della scelta operata possa essere favorito. La logica descritta non va, dunque, inquinata con elementi distorsivi del suo funzionamento: nel caso di specie, mediante il controllo di chi attua un sistema di gestione del capitale del tutto diverso.

Ma ciò non basta. Nella previsione del programma vi è un altro equivoco di fondo, che peraltro pare improntare anche l’agire di molte istituzioni non solo nazionali. Si ritiene, infatti, sia sufficiente destinare fondi quanto più ingenti a qualche generico traguardo perché tanto più elevata sia la probabilità che lo stesso possa essere raggiunto. Si sottovaluta cioè l’importanza di stabilire metri di misura adeguati a obiettivi esattamente precisati e, di conseguenza, di operare una stima che, considerate le risorse per definizione limitate e la pluralità di esigenze, sia volta a finalizzare l’investimento al ragionevole conseguimento del miglior risultato (qui se ne faceva già menzione, con riguardo a un diverso argomento). In tema di beneficenza, destinata a fornire aiuti umanitari ai Paesi bisognosi, quella appena delineata è la metodologia adottata dalla Fondazione Bill e Melinda Gates, in aderenza a quanto previsto dalle Nazioni Unite, che ha stabilito otto Millennium Development Goals (MDG), ciascuno dei quali ha specifici target da raggiungere entro date prestabilite. Nella lettera del febbraio 2013 inviata da Gates alla Fondazione (qui vi è una sintesi/adattamento), egli invita a fissare obiettivi chiari, scegliere un approccio, misurare i risultati e poi usare questi dati per perfezionare costantemente l’approccio. Gates evidenzia l’importanza delle misurazioni sia nella definizione dei fini ( “L’obiettivo di ridurre di due terzi la mortalità infantile creò un traguardo chiaro, da usare come metro di valutazione per misurare il successo o l’ insuccesso”), sia durante il percorso volto al loro conseguimento (“..ho visitato un avamposto sanitario nella provincia etiope del Dalocha, e ho visto appesi alle pareti grafici sulle vaccinazioni, i casi di malaria e altri dati. Queste informazioni vanno a confluire in un sistema – in parte cartaceo e in parte computerizzato – che aiuta i funzionari pubblici a capire cosa sta funzionando e cosa no, e intervenire su quello che non sta funzionando”). In conclusione, stabilire precisi traguardi sulla base di numeri chiari è fattore incentivante per la beneficenza (“..un traguardo chiaro…attirò stanziamenti molto più consistenti per il miglioramento dei servizi sanitari di base da parte dei Paesi e degli organismi donatori”).

La citata lettera di Gates e lo scritto di Mingardi sopra richiamato trovano fondamento comune nel concetto che il migliore modello di gestione dei capitali provenienti da donazioni è quello imprenditoriale. Ne consegue che i privati che compiono atti di liberalità vanno considerati “partner” e non solo “bancomat” per il ruolo essenziale e attivo cui sono chiamati, già solo in quanto mediante la scelta dell’organizzazione cui destinare la propria donazione dimostrano di apprezzare e, quindi, premiare la gestione migliore e con essa la qualità, la competenza e il merito dell’istituzione che la adotta; che la filantropia, a qualunque scopo indirizzata, necessita di una governance strategica improntata a criteri di efficienza che evitino sprechi, massimizzando i profitti, come sopra intesi; che il raggiungimento di fini prefissati è ulteriore incentivo ad investire e, così, a ottenere i risultati perseguiti. Ma i risultati, per essere davvero tangibili a ogni effetto, necessitano, come si diceva, di misurazioni sin dall’inizio del progetto per stabilire le priorità e i relativi interventi. Traguardi puntualmente definiti sono poi funzionali alla verifica non solo dei successi o degli insuccessi delle azioni compiute, ma altresì della fondatezza delle valutazioni in base a cui essi sono stati preferiti rispetto ad altri, nonché della correttezza dei criteri secondo i quali la politica di investimento è stata decisa. In questo modo, si comprendono gli errori eventualmente commessi e si corregge il percorso, perché il prosieguo sia quanto più efficace, per fare dell’esperienza valore aggiunto e, così, migliorare metodi e rendimento. I capitali impiegati in qualsivoglia progetto, anche filantropico, non hanno quindi un valore intrinseco e statico, dipendente esclusivamente dal loro ammontare iniziale. Essi sono qualificati dalla gestione che ne viene praticata, dalla qualità dell’azione che connota il progressivo avvicinamento al fine previsto, dagli obiettivi che grazie al loro apporto vengono raggiunti. Pertanto, da un lato, è importante che detti obiettivi siano selezionati sulla base di una buona analisi che individui quelli cui indirizzare più opportuni investimenti; dall’altro che il coordinamento delle attività volte a perseguirli venga svolto da chi sia dotato di risorse e competenze adeguate ed agisca sulla base di una governance che abbia dimostrato di produrre buoni risultati e impronti a criteri di trasparenza il proprio operato.

“Destinazione Italia”, infine, prevede che vengano utilizzati “i beni che si trovano nei depositi dei musei, non altrimenti valorizzabili, per costruire iniziative di ricerca, valorizzazione e promozione della cultura italiana nel mondo”. Più che puntuale oggetto di un impegno fattivo, sulla base di quanto sopra esposto, che dal pubblico o dal privato venga assunto, questo sembra un mero teorico auspicio. Servirebbe, infatti, almeno il  riferimento a una preliminare analisi precisa di costi/benefici che – data la scarsità dei mezzi disponibili e, quindi, della possibilità di risolvere in ambito culturale ogni problema indistintamente – sia volta a individuare chiaramente su quante e quali delle tante opere abbandonate nei depositi occorra puntare perché l’investimento operato possa risultare, nei termini più volte espressi, proficuo. Come detto, solo attraverso la misurabilità degli elementi essenziali di partenza, degli stadi intermedi e dei risultati raggiunti si può assicurare l’efficacia dei progetti di lunga durata finalizzati a far fronte a situazioni di disagio o di carenza, che di carattere sanitario o artistico/culturale o altro si tratti.

 

“Destinazione Italia” rischia di essere considerato un programma generico a tal punto da far perdere forza all’attrattività con cui vorrebbe connotare il Paese che ne è oggetto e serietà ai presupposti da cui esso è originato. Perché non venga declinato all’italiana, meglio provvedere a evitarlo, dettagliando ciò che è necessario quanto prima.

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob).

2 Responses

  1. marco

    Qualsiasi idea vale 30 al massimo il restante 70 per il vero successo è fatto di scelte e impegno
    Il raggiungimento di quota 70 dipende dal livello di meritocrazia che il complesso organizzativo è in grado di esprimere
    Direi che su questo 70 per ora non mi sentirei di giocarci 1 solo cent!!
    Quando prenderemo in seria considerazione che le costruzioni durature si fanno partendo dalle fondamenta non dal tetto
    I montanari sanno che le scorciatoie non vanno confuse coi sentieri

  2. marco

    sinteticamente
    la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni
    dato che è una massima penso sia pubblicabile senza offendere nessuno

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