8
Ago
2018

Il caso Google e l’inerzia dei consumatori —di Andrea Giannaccari

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Giannaccari.

Nel mezzo di rapporti commerciali oltremodo tesi tra le due sponde dell’Atlantico si è concluso (senza particolari colpi di scena per chi abbia seguito la vicenda) il procedimento intentato nel 2015 dalla Commissione nei confronti di Google e del suo sistema Android. Nelle more della pubblicazione della decisione, depurata dai dati sensibili, c’è lo spazio per alcune note critiche, pur con le cautele derivanti dalla mancata disponibilità di informazioni importanti.

Sfogliando la margherita, il primo elemento di perplessità riguarda la definizione dei mercati rilevanti, che sono apparsi – stando alla documentazione variamente circolata – oltremodo circoscritti. Valga a titolo esemplificativo quello che la Commissione individua quale “mercato dei sistemi operativi per dispositivi mobili intelligenti che possono essere concessi in licenza”. La scelta di restringere lo scenario ha portato di fatto ad escludere il maggiore concorrente di Google nel comparto mobile, il sistema (chiuso) IOS di Apple e, a spiovere, il suo profittevole Apple Store. In un mercato tanto ristretto c’è assoluta dominanza da parte di Google, ma sembra difficile dar credito all’impianto della Commissione che i due sistemi non siano in concorrenza in ragione di enormi switching cost per i consumatori.

Secondo. È proprio il profilo delle barriere per gli utenti al passaggio da una piattaforma ad un’altra che appare viziata da antichi (pre)concetti. Coloro che alle diverse latitudini si sono meritoriamente avventurati in commenti strutturati hanno evidenziato le numerose similitudini con la saga antitrust di Microsoft. In quel caso, il torno argomentativo della Commissione ruotava com’è noto attorno alla end-user inertia, sia in relazione ad Internet Explorer che a Media Player. Pre-installare tali software precludeva l’accesso ad altri. Tesi, a parere di scrive, largamente inconferente, ma ancor meno plausibile nel caso di Google. Il sistema Android e il Google Play Store danno facilmente accesso a milioni di applicazioni, comprese quelle per effettuare ricerche o alternative a Chrome. Per altro, era la stessa Commissione che, nel valutare recentemente la concentrazione tra Facebook e WhatsApp (Case COMP/M. 7217, Facebook/WhatsApp), aveva ritenuto i consumatori sufficientemente attrezzati per accedere alle piattaforme di messaggistica alternative (evidenziando la tendenza ad utilizzare più applicazioni di comunicazione sullo stesso apparecchio, il c.d. multihoming), offerte dai diversi concorrenti già attivi nel mercato. L’odierna decisione sembra tornare all’antico. E non appare scelta saggia.

Da ultimo, non più che una chiosa sull’ammontare della sanzione irrogata: i 4,34 miliardi di euro. Se, come è stato correttamente enfatizzato, si tratta della multa più elevata irrogata dalla Commissione, è per altro verso utile evidenziare che in termini relativi sembra attestarsi intorno al 4% del fatturato della società. Lontano dalla soglia legale del 10% e, ci si auspica, inidonea a generare effetti in termini di incentivi all’innovazione.

Infine, di là dai numerosi commenti che riguarderanno la decisione, sarà interessante valutare quanti consumatori decideranno di intentare azioni sul versante del private enforcement per chiedere i danni legati agli abusi individuati dalla Commissione. Sarà questo un barometro più affidante dell’operato (di primo acchito non solidissimo né convincente) della DG Comp.

Andrea Giannaccari è Docente di Competition Law and Antitrust Regulation presso la LUISS Guido Carli 

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