Giustizia lenta, Paese bloccato: perché l’Italia rischia di sprecare l’occasione del PNRR
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Andrea Rosso
«Sans argent, n’est de guerre», affermava Napoleone per ricordare che nessuna battaglia può essere combattuta senza le risorse necessarie. Lo stesso vale per una delle sfide più critiche dell’Italia contemporanea: la lotta contro l’inefficienza cronica della giustizia. Con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), l’Italia ha finalmente avuto a disposizione risorse straordinarie per ridurre la durata dei procedimenti penali e civili, sbloccare l’arretrato e modernizzare i tribunali. Ma senza un approccio coerente, costante e strutturale, anche questa “guerra” rischia di trasformarsi in un assedio senza fine, fatto di obiettivi mancati, riforme incomplete e risultati poco duraturi. A un anno dalla scadenza degli impegni europei, è il momento di chiedersi: il sistema giudiziario italiano è davvero pronto a reggere il cambiamento, o stiamo solo vincendo qualche battaglia simbolica, perdendo però la guerra?
Gli obiettivi del PNRR per la giustizia
Il 22 giugno 2021, il Consiglio dell’Unione Europea approvava ufficialmente il PNRR italiano, compresa la Componente 1 – Digitalizzazione della Pubblica Amministrazione della Missione 1, in cui è incardinato l’intervento per la giustizia. I target dichiarati dal governo italiano erano chiari:
- ridurre del 40% i tempi dei procedimenti civili;
- ridurre del 25% i tempi dei procedimenti penali;
- abbattere del 90% l’arretrato civile pendente, in tutti i gradi di giudizio.
Questi obiettivi dovevano essere raggiunti entro giugno 2026, prendendo come riferimento i valori del 2019. A tal fine, l’Italia ha ricevuto circa 2,6 miliardi di euro, finalizzati al potenziamento degli organici (in particolare degli Uffici per il Processo), alla digitalizzazione, e all’attuazione delle riforme strutturali già avviate nel triennio precedente.
Cosa è stato fatto finora
Secondo i dati aggiornati al primo semestre del 2025, reperibili sul sito del Ministero della Giustizia, l’Italia ha speso circa 1,2 miliardi dei 2,7 assegnati, poco meno della metà dei fondi complessivi. L’avanzamento materiale degli obiettivi ha prodotto risultati significativi:
- –28% nei tempi dei procedimenti penali;
- –20,1% nei tempi dei procedimenti civili;
- –73,3% di arretrato civile smaltito nei tribunali di primo grado, –70,5% nelle corti d’appello.
Si tratta di numeri che testimoniano un primo successo: la macchina della giustizia ha cominciato a muoversi, sostenuta da risorse finanziarie, assunzioni straordinarie e interventi organizzativi. L’istituzione degli Uffici per il Processo (UPP), in particolare, ha contribuito a migliorare il supporto ai magistrati e a velocizzare l’istruttoria.
Ma basterà?
Nonostante questi dati positivi, permane un limite strutturale evidente: manca meno di un anno alla scadenza degli impegni assunti con l’Unione Europea, e gli obiettivi del 40% e del 90% sembrano oggi difficilmente raggiungibili. Soprattutto se si considera che la curva di efficientamento di un sistema complesso come quello giudiziario non è lineare.
I primi miglioramenti, i quali comportano le migliorie più tangibili e consistenti, derivano da interventi mirati sull’arretrato semplice, digitalizzazioni di base, o pratiche gestionali standardizzabili. Ma man mano che si aggrediscono le sacche più complesse (processi lunghi, tribunali sovraccarichi, contenziosi tecnici), il margine di miglioramento si riduce, e ogni punto percentuale in più richiede uno sforzo maggiore.
Il rischio concreto è che i risultati ottenuti finora rappresentino un plateau naturale, raggiunto grazie a risorse straordinarie e sforzi emergenziali, senza aver inciso sulle debolezze strutturali del sistema. In molte sedi permane una cronica carenza di personale, la digitalizzazione è disomogenea e l’interoperabilità tra banche dati giudiziarie resta parziale. Inoltre, manca una cultura organizzativa fondata sulla valutazione della performance e sull’accountability reale.
Indicatori e differenze territoriali
Un elemento utile per misurare l’efficienza dei tribunali è la Clearance Rate, ossia il rapporto tra i procedimenti definiti e quelli sopravvenuti. Una Clearance Rate ≥ 100 indica un tribunale che riesce a smaltire almeno tutti i nuovi casi. Se invece il valore è < 100, significa che l’arretrato cresce.
Nel monitoraggio PNRR, il Ministero della Giustizia ha introdotto questo indicatore come riferimento chiave, anche per distribuire fondi in base alla performance. Tuttavia, i dati disponibili mostrano forti disomogeneità territoriali: alcuni tribunali virtuosi hanno già superato la soglia di 100, mentre altri restano cronicamente inefficienti, contribuendo in maniera sproporzionata al rallentamento complessivo. La riforma, quindi, non potrà dirsi compiuta se non si affrontano anche le disuguaglianze strutturali tra uffici giudiziari.
Una riforma liberale è ancora possibile?
Da una prospettiva autenticamente liberale, la giustizia deve essere prima di tutto efficiente, prevedibile e responsabile. Non può funzionare come un compartimento separato, impermeabile a logiche di valutazione e merito, né può continuare a gravare su cittadini e imprese come un ostacolo strutturale. È qui che la riforma del sistema giudiziario dovrebbe fare un salto di qualità: non limitarsi a interventi emergenziali o compensativi, ma puntare a una trasformazione stabile e misurabile.
Un primo passo indispensabile consiste nel liberare i magistrati da funzioni amministrative che oggi sottraggono tempo e risorse al lavoro giurisdizionale vero e proprio. Questo significa ridefinire l’organizzazione degli uffici, rafforzando il ruolo del personale tecnico-amministrativo e incentivando la specializzazione interna. Parallelamente, è necessario introdurre meccanismi di valutazione basati sulla qualità e sull’efficienza delle decisioni, premiando le strutture che mostrano reali capacità di gestione del carico di lavoro e rispetto dei tempi, e fornendo invece supporto mirato a quelle in difficoltà.
Un’altra leva strategica è l’espansione degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie: mediazione, arbitrato, negoziazione assistita. Non solo vanno promossi attivamente, ma devono anche essere incentivati fiscalmente e resi più accessibili, soprattutto nei contenziosi civili a bassa complessità. A ciò si aggiunge il tema cruciale della trasparenza: i dati di performance di ogni tribunale dovrebbero essere pubblici, confrontabili e aggiornati, così da permettere un controllo civico e istituzionale reale, e non solo formale.
Infine, la digitalizzazione, attualmente caratterizzata da una frammentazione significativa e da livelli limitati di interoperabilità, necessita di essere completata e pienamente integrata nella gestione ordinaria dei procedimenti giudiziari. L’obiettivo non deve consistere in una mera trasposizione digitale dell’apparato burocratico esistente, bensì in una riformulazione sostanziale delle modalità di amministrazione della giustizia. Ciò implica l’adozione di strumenti di supporto decisionale basati su modelli predittivi, l’automatizzazione delle procedure standardizzabili e la promozione di una condivisione sistematica e sicura dei dati tra le diverse articolazioni dell’apparato giudiziario.
Conclusione
La giustizia non è solo un servizio pubblico: è una delle infrastrutture immateriali fondamentali per il funzionamento di un’economia libera. Quando la sua lentezza diventa sistemica, a pagare non sono solo le parti coinvolte in un processo, ma l’intero sistema produttivo e sociale. Il PNRR ha rappresentato un’occasione senza precedenti per affrontare un nodo strutturale irrisolto da decenni. Ma il tempo sta per scadere, e i risultati parziali rischiano di diventare alibi per non intervenire davvero.
Serve un cambio di passo. Non bastano fondi e buone intenzioni: occorre il coraggio di introdurre logiche di responsabilità, efficienza e merito anche nella giustizia, come in ogni altro settore dello Stato. Finché i tribunali resteranno immuni da valutazioni reali e vincoli di performance, ogni riforma sarà solo temporanea. È il momento di chiedersi se vogliamo una giustizia che funzioni davvero, o continuare a conviverci come se fosse irriformabile.