9
Mag
2013

Finanziamento pubblico: i partiti sono un’esternalità positiva?

Finanziamento pubblico ai partiti sì o no?

Molti sono dell’opinione che qualche forma di sussidio alla politica sia necessario, per evitare di trasformarla in un “giocattolo da ricchi”. Una battuta sbrigativa potrebbe essere che finanziamenti molto generosi non hanno impedito alla politica italiana di essere dominata da miliardari più o meno annoiati. Ma questa, naturalmente, sarebbe una risposta molto evasiva.

Una risposta più seria arriva dalla Fondazione Nuovo Millennio per una Nuova Italia, che ha fatto propria una proposta di Pellegrino Capaldo sull’erogazione di un finanziamento sotto forma di credito d’imposta del 95% per tutte le donazioni a partiti e movimenti politici da parte di persone fisiche fino a un massimo di 2.000 euro pro capite.

E’ un compromesso ragionevole? Sì e no. Di fronte al tema del finanziamento pubblico ai partiti occorre porsi tre domande: se, quanto e come. Risponderò in ordine inverso a quello imposto dalla logica.

Come? Ammesso che riteniamo necessario sovvenzionare la politica e che disponiamo di risorse illimitate, quello di Capaldo appare un compromesso ragionevole. Di fatto, l’allocazione delle risorse viene decentrata e soprattutto è slegata dal risultato elettorale, come invece é nella versione in vigore del finanziamento pubblico. Questo ha due importanti conseguenze: in primo luogo i cittadini possono finanziare forze politiche che, per varie ragioni, non hanno partecipato alle elezioni (o non hanno eletto propri rappresentanti); secondo, e più importante, un corollario è che in tal modo possono finanziare forze politiche nuove. Viene quindi meno la perversione anti-competitiva (e quindi anti-democratica) dell’attuale sistema, che eleva una enorme barriera all’ingresso per chi si presenti alle elezioni per la prima volta, e traccia un discrimine molto pesante tra gli insider e gli outsider. Passando da un meccanismo centralizzato a uno decentralizzato, si offre al cittadino uno strumento ulteriore, rispetto al voto, per sanzionare i partiti che perdono la sua fiducia. Uno strumento, peraltro, che può essere utilizzato ogni anno, e non soltanto in occasione dei cicli elettorali. E’, però discutibile l’entità del credito d’imposta: un credito del 95% (fino a 2.000 euro) implica infatti la possibilità per i cittadini di “regalare” soldi ai partiti, senza particolare sacrificio. Non voglio spingermi a immaginare che i partiti paghino 200 euro a un cittadino per ottenerne in cambio una donazione da 2.000 (che al cittadino stesso “costa” 100 euro, cioè il 5%) ma a pensare male si fa peccato eccetera. Questo mi porta al secondo punto.

Quanto? Su questo fronte, la proposta inizia a incrinarsi. Sono due le ragioni. La prima è quella appena anticipata. Ammesso che sia accettabile una compartecipazione della collettività al finanziamento pubblico (attraverso il credito d’imposta) deve esserci un minimo di sacrificio da parte dell’individuo. Se un mio euro ne frutta 20 al partito beneficiario, abbiamo scoperto la pietra filosofale. Meglio abbassare sensibilmente l’asticella, come nella proposta di Nicola Rossi che prevede un credito del 50% per donazioni fino a 5.000 euro. In questo caso, un euro vale due: tentazioni, abusi e distorsioni sono proporzionalmente ridotti. Inoltre c’è un problema legato all’entità complessiva delle donazioni, che viene ben messo in evidenza dallo stesso Nicola Rossi:

L’assenza di un tetto alla spesa è forse il punto più opinabile della proposta Capaldo. Noi prevediamo invece un limite totale dei contributi verso i partiti. Come? Nell’anno 2011 il livello di benessere degli italiani (il loro pil pro capite) era prossimo a quello del 1999. Se i cittadini vivono con le risorse di 12 anni fa, lo stesso facciano i partiti. Si passi quindi dai 190 milioni di finanziamento pubblico dei partiti del 2011 ai 100 circa del 1999. Ma la buona politica va premiata: la nostra proposta prevede quindi che il tetto possa crescere negli anni a venire al crescere di due variabili: il pil pro capite e il numero dei votanti.

Anche con questi aggiustamenti, però, rimango perplesso. La ragione sta nell’ultimo, e più importante, tema. Il “se”.

E’ davvero necessario? L’evidenza ampiamente disponibile sotto gli occhi di tutti dice che i partiti maneggiano troppi soldi (sorvoliamo se i soldi arrivino sotto forma di finanziamento al partito, al gruppo parlamentare o al singolo eletto: arrivano). Ciò è reso ovvio dal fatto che a) ce n’erano abbastanza perché i politici ritenessero accettabile servirsene per acquistare ogni genere di bene o servizio (dalle automobili ai diamanti, dai reggiseni ai pranzi di matrimonio) e b) ciò è emerso solo di fronte a un malcostume pervasivo e clamoroso. In altre parole, se i politici si fossero limitati a gioielli di modesto valore e hotel a 4 stelle, non ci saremmo accorti di niente. E’ davvero indispensabile alla politica pagare push-up e vacanze relax? Se pensate di sì, smettete di leggere e iscrivetevi qui o qui (o scegliete dal catalogo). Se la pensate diversamente, invece, fatevi questa domanda: sotto quali condizioni è giustificato erogare un sussidio? Non voglio fare il liberista selvaggio. Mi accontento, in questo caso, di fare un ragionamento terra-terra e molto mainstream.

Un sussidio è “giustificato” quando siamo in presenza di esternalità positive che, altrimenti, non verrebbero prodotte. Per esempio, molti sono convinti che il trasporto pubblico locale convenga non solo a chi lo utilizza, ma anche a tutti gli altri, che possono così vivere in città meno inquinate e con meno traffico. Se il biglietto dovesse coprire interamente i costi del Tpl, lo userebbero in pochi, e così i livelli di traffico e inquinamento sarebbero superiori a quelli “ottimi”. Per questa ragione il Tpl viene sussidiato (disclaimer: non la penso necessariamente così). Vale anche per i partiti? Gli effetti del finanziamento pubblico ai partiti sono quelli di a) aumentare l’offerta di partiti (in particolare il loro numero) e b) a parità di altre condizioni rendere meno necessario, per i partiti, governare “bene” (possiamo discutere molto su cosa significhi governare bene; non intendo farlo adesso). Infatti, l’obiettivo dei politici non è, generalmente, salvare il mondo (quello può essere un loro obiettivo secondario) ma, più prosaicamente, arrivare a fine mese, possibilmente bene, esattamente come lo è per voi e per me. Inoltre, sempre a parità di altre condizioni, il finanziamento pubblico alimenta l’esistenza di una casta politica che altrimenti non esisterebbe, sarebbe meno numerosa o avrebbe redditi inferiori. E’ ovvio che il principale obiettivo di questa casta è sopravvivere, e possibilmente farlo sempre meglio: poiché hanno la chiave della cassaforte, saranno incentivati ad aprirla sempre più spesso. Da qui la domanda: avere tanti partiti che percepiscono finanziamenti non solo per volontà diretta degli elettori (attraverso i contributi volontari dei loro eletti o le iscrizioni dei tesserati) ma anche indirettamente (quindi a prescindere dai risultati) è considerabile come un’esternalità positiva? Con tutti gli sforzi e tutta la fantasia, non riesco a credere che sia così.

Questo, infatti, è il classico caso in cui non bisogna agire dal lato dell’offerta, ma dal lato della domanda. I partiti devono conquistare la fiducia dei cittadini. Tale fiducia è, oggi, un bene molto scarso: quindi ha un prezzo elevato. Il finanziamento pubblico non è un bene complementare alla fiducia dei cittadini, ma è un sostituto. Di fatto, i partiti prendono dalle tasse dei contribuenti quei soldi che gli stessi contribuenti non vogliono sborsare spontaneamente.

Per questa ragione, pur ritenendo che la proposta di Capaldo sia migliorativa rispetto allo status quo, rimango convinto che oggi l’unica riforma accettabile del finanziamento pubblico ai partiti sia la sua completa e immediata abolizione, assieme all’abolizione di tutti i contributi diversi dall’emolumento degli eletti e di un minimo di personale e strutture al servizio degli eletti (non dei partiti). Se volete i miei soldi, chiedetemeli. Ma, come sempre dite facendo il contrario, via le mani dalle tasche degli italiani.

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1 Response

  1. claudio p

    il discorso è ancora più semplice, molto più semplice.
    per evitare che la politica sia un “giocattolo da ricchi” i parlamentari hanno uno stipendio. punto.
    (in Svizzera non hanno neanche quello, esiste solo un rimborso-spese)
    se l’abolizione del finanziamento pubblico (per altro già abolito col referendum) dovesse significare la scomparsa dei partiti: meglio! auguro agli italiani di trovarsi di fronte a una scheda elettorale senza simboli, loghi, disegnini e pastrocchi: solo nomi e cognomi.

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