4
Lug
2013

Comunque sia andata è stato un successo. Per una storia della fat tax danese

Il dibattito relativo alle imposte sui grassi – o, più precisamente, alle accise sugli alimenti utilizzate in funzione di politica sanitaria – è dominato da una serie di affermazioni di principio, in virtù del limitato numero di esperienze empiriche che possano supportare la tesi favorevole o quella contraria. Non sorprende, dunque, che uno tra i più significativi casi di tassazione dei grassi – quello danese – sia oggi al centro di interpretazioni contrastanti.

A ben vedere, la lettura della vicenda pare abbastanza lineare: l’imposta danese ha avuto vita breve perché il governo di Copenhagen, a un anno di distanza dall’introduzione, ha preso atto della sua scarsa efficacia e, soprattutto, dei costi considerevoli, optando per l’abrogazione (nonché per il ritiro di un’analoga proposta di prelievo sugli alimenti zuccherati). Il tributo, che colpiva con un’aliquota di circa due euro al chilo gli alimenti contenenti almeno il 2,3% di grassi saturi (inclusi olî, carni e formaggi), aveva alimentato un fiorente commercio transfrontaliero, a danno dell’attività economica nazionale e delle aspettative di gettito dell’erario. Inoltre, la misura implicava rilevanti costi amministrativi, per la necessità di determinare le caratteristiche nutrizionali degli alimenti che possono rientrare nel suo ambito applicativo.

Una ricerca promossa dall’Università di Copenhagen e presentata alla Conferenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in corso a Vienna ambirebbe a bilanciare tale ricostruzione. Lo studio, anticipato nei giorni scorsi da EU Food Policy, sostiene che il tributo abbia ridotto del 6% l’assunzione di grassi saturi da burro, olî e margarina e addirittura del 10-12% il loro consumo complessivo. Gli autori riconoscono – bontà loro – che si tratta di cifre provvisorie, in attesa di essere corroborate da un supplemento d’indagine. A maggior ragione, sarebbe provvisorio – e forse prematuro – ogni commento sullo studio: tuttavia, mi pare che si possano svolgere già alcune osservazioni.

  1. L’analisi dei consumi è in questo caso particolarmente scivolosa, perché – come detto – una quota considerevole della domanda è sfuggita ai commercianti danesi; è vero che si può ricorrere ai consumatori stessi per reperire le informazioni mancanti, ma questo metodo risulterebbe assai meno affidabile.
  2. Gli autori riconoscono che, prima dell’introduzione del tributo, i consumatori hanno aumentato le proprie scorte fino a un terzo: i tassi di consumo dovrebbero tener conto di questo elemento.
  3. Lo studio riporta che l’incidenza della tassa non è ricaduta interamente sui consumatori di olî e burro, mentre il prezzo della margarina è aumentato in misura superiore alla componente fiscale. È lecito ipotizzare che il consumo di margarina sia diminuito in maniera più marcata.
  4. L’analisi si riferisce a tre categorie di prodotti colpiti dall’imposta, ma non ne esaurisce l’ambito. Quale impatto ha avuto la misura rispetto al consumo di alimenti come carni e formaggi?
  5. Più in generale, la domanda rilevante non è tanto l’andamento del consumo di singoli prodotti, quanto l’effetto complessivo del tributo sulla dieta dei cittadini danesi. Su questo aspetto, gli autori ammettono di non poter formulare un giudizio.
  6. Gli effetti dell’imposta sulla salute vanno comunque rapportati agli effetti economici in una valutazione d’impatto generale.

È senz’altro un bene che si discuta di questi argomenti in modo rigoroso, sfuggendo a riflessi aprioristici e valorizzando gli elementi empirici che l’esperienza di alcuni paesi comincia a fornire. Tuttavia, sulla base di queste anticipazioni, la ricerca dell’Università di Copenhagen non pare in grado di giustificare una rivalutazione del caso danese. Il revisionismo salutista può attendere.

Leave a Reply