12
Nov
2014

Civiltà giuridica: il DDL semplificazioni—di Antonio De Rinaldis

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Antonio De Rinaldis.

Era il 19 giugno 2013 quando il Governo Letta nel consiglio dei ministri n. 10 annunciava di aver approvato il disegno di legge sulle semplificazioni.
Che fine avrà fatto quel disegno di legge? Dopo un percorso tortuoso è ancora presso le Camere. Eppure come si legge sulla pagina web del Governo quel disegno di legge conteneva almeno otto semplificazioni di carattere fiscale che, sebbene non determinanti, risultavano comunque importanti.
Una di queste riguardava il trattamento fiscale da riservare alle società tra professionisti.
In breve, questa forma di società vede i primi germogli con le c.d. lenzuolate di Bersani, poi compie il primo gemito con il Governo Amato (del quale Letta era il Ministro dell’Industria) e ci mette mano anche il Governo Berlusconi. Ma tutti si dimenticano di disciplinare la natura tributaria di queste società che resta nel limbo anche per il legislatore.
In breve il problema: posto che le società commerciali producono ex lege un reddito d’impresa, le società tra professionisti che non svolgono un’attività d’impresa ma di lavoro autonomo devono essere tassate secondo le regole dell’involucro (società) o secondo le regole dell’opera che prestano (sostanza)? Le regole sono notevolmente diverse e chi deve applicarle o chi deve scegliere come applicarle dovrebbe, almeno, conoscerle, non dico in anticipo, ma solo conoscerle.
Se non che il disegno di legge, capendo che senza la chiarezza necessaria lo strumento risulterebbe inutilizzabile, precisa che ai fini della tassazione sul reddito le società tra professionisti applicano le regole delle “associazioni tra professionisti”, ossia dei cosiddetti studi associati quindi le regole della sostanza
Evviva! Manco per niente! Vediamo come si sono evoluti gli interventi sull’argomento.
L’Agenzia delle Entrate (Risoluzione 17 settembre 2002 n. 305/E) interviene, una prima volta (cominciate a contare), sostenendo che il nuovo strumento può realizzare ipotesi di interposizione fittizia. Come dire: non sappiamo di cosa si tratta, meglio scongiurare che venga utilizzato e quale miglior strumento della paura?
Poi, sempre l’Agenzia delle Entrate ritorna sull’argomento nel 2003 (Risoluzione 28 maggio 2003 n. 118/E) qualificando il reddito della società tra avvocati – una particolare società tra professionisti nata nel 2001 – come reddito di lavoro autonomo.
Poi nel 2006, sempre l’Agenzia delle Entrate (Risoluzione 4 maggio 2006 n. 56/E) sebbene con riferimento alle società di ingegneria – questa volta sembra a ragione – interviene qualificando il reddito di queste come reddito d’impresa.
Nel 2007, sempre l’Agenzia delle Entrate ritorna sull’argomento (Risoluzione 15 maggio 2007 n. 99/E) qualificando il reddito delle società tra avvocati come reddito di lavoro autonomo.
In seguito all’intervento del Governo Berlusconi, sull’argomento intervengono le varie associazioni di categoria (una per tutte l’Istituto di Ricerca dei Dottori Commercialisti) le quali qualificano il reddito delle società tra professionisti come reddito di lavoro autonomo.
Ma l’Agenzia delle Entrate, dopo l’approvazione da parte del Governo Letta del DDL sulle semplificazioni, interviene ulteriormente (Comunicato 3 luglio 2013) affermando, coerentemente con il testo del disegno di legge, che “Le società tra professionisti, anche se regolamentate nel sistema ordinistico, producono reddito di lavoro autonomo che viene attribuito ai soci per trasparenza. In pratica la modifica normativa estende a questa categoria il medesimo trattamento fiscale già previsto per le associazioni tra professionisti esistenti”. Cioè il Governo ci dice non importa l’involucro (la forma) ma il contenuto (la sostanza).
Ma evidentemente all’Agenzia delle Entrate non basta e allora ritorna sull’argomento – ma stavolta “stranamente” con un documento non pubblico – (Interpello Agenzia Entrate 9 maggio 2014 n. 954-93) sostenendo, con una giravolta alla Klaus Dibiasi – uno dei più grandi tuffatori di tutti i tempi – che i redditi prodotti dalla S.t.p. costituita nella forma di s.r.l. sono redditi di impresa ai sensi dell’art. 81 del TUIR. Cioè le regole della tassazione ridiventano quelle dell’involucro!
Ma nel frattempo il legislatore cosa fa? Beh … il disegno di legge è lì che passa da una commissione all’altra e da un parere all’altro. L’ultimo è quello espresso dalla Commissione Finanze della Camera il 7 agosto 2014, con il quale si esprime parere favorevole al disegno di legge ma a condizione che dal testo venga espunta proprio la semplificazione – che poi semplificazione non è, ma chiarezza – di cui si discute e che il Governo Letta aveva voluto.
Ma nel frattempo i Ministeri che vigilano sulle c.d. Casse di previdenza private hanno approvato le delibere con le quali gli Enti previdenziali hanno disciplinato, nel silenzio del Legislatore, il trattamento previdenziale dei proventi dei soci delle società tra professionisti, qualificando in tal modo il reddito che ogni singolo professionista percepisce dalla partecipazione alla società tra professionisti come reddito di lavoro autonomo. Ma come, non si era detto che era reddito d’impresa? E che conseguentemente l’utile percepito dai soci professionisti sarebbe un vero e proprio “dividendo”. No! Perchè in tal modo sfuggirebbe alle pretese delle Casse di Previdenza!!!!
Quindi riepilogando: ad oggi, il reddito delle società tra professionisti è reddito d’impresa ma non appena lo percepiscono i soci professionisti subisce una mutazione genetica diventando, nell’etere del bonifico bancario, reddito di lavoro autonomo di tal modo che lo stesso reddito subisce quanto meno una doppia tassazione e le Casse di Previdenza possono accettarne una fetta. Triplo salto mortale all’indietro carpiato, per restare in tema di tuffi.
E va bene. Ma che fine fanno quelle circa 200 società tra professionisti – un po’ pochine proprio a causa della scarsa chiarezza – che si sono avventurate con fiducia nel labirinto di Minosse? come si devono comportare per il pregresso ancora accertabile? Non è dato saperlo.
Il Legislatore, il Governo e l’Agenzia delle Entrate sono liberi di cambiare la loro opinione e di contorcersi e avvitarsi su loro stessi, tanto poi si può sempre emettere un accertamento, magari per interposizione fittizia e immediatamente esecutivo, e combattere l’evasione appiccicandoci una denuncia ex art. 331 del codice di procedura penale.
Lo troveranno queste duecento infedeli società un giudice a Berlino disposto a capire che a furia di farlo avvitare su se stesso il mugnaio di Saint-Souci resterà stritolato dalle roboanti pale del mulino?

4 Responses

  1. Francesco_P

    Cosa c’è di strano. Lo Stato delle mille caste si contraddice perché ogni casta è una repubblica a se stante e la Legge solo un optional (tanto è malfatta).
    Poi ci lamentiamo perché gli investimenti scappano.

  2. ALESSIO DI MICHELE

    Per me dovrebbe essere reddito d’ impresa: un po’ perché così ci cominciamo a levare dagli epididimi un po’ di previdenza obbligatoria, un po’ perché i soci potrebbero non prestare nessuna opera, essere in pensione, od addirittura essere soci di solo capitale. Vediamo però come si organizzeranno in parlamento le opportune caste.

  3. antonio de rinaldis

    Caro Alessio
    credo che se fosse reddito d’impresa risolveremo alcuni problemi. Tra i quali: il bilancio di esercizio che è impossibile da fare con il criterio di cassa ed eventualmente anche la previdenza obbligatoria anche se in tal modo credo che le casse di previdenza subirebbero un enorme danno ed anche noi lo subiremmo che vedremmo tagliate le nostre pensioni future. Ma oggi non si comprende e non ci vogliono far comprendere. Quanto al discorso dei soci, i soci di capitale sono ammessi ma con un limite ben definito. Comunque qualunque sia la soluzione che vogliono adottare … purchè sia ragionevole ed univoca ci andrà bene.

  4. A

    Caro Antonio
    ti ringrazio per la risposta, e rilancio: la mia opinione, da liberista/libertario duro e puro, è: smettiamola una volta per sempre con l’ obbligatorietà della previdenza, per di più affidata a monopoli, quando si sa che il monopolio efficiente ancora non è stato creato. Ognuno provveda (o non provveda) per suo conto a quando sarà vecchio, e vinca il migliore. Capisco che in ballo c’ è ora anche la pensione tua, ma rilevo che, se non si dà un taglio netto ad un certo punto, il problema sarà solo perennemente rinviato (ed aggravato), e scaricato sui pochi nuovi entranti nelle professioni liberali. Per di più ritengo che la gestione del patrimonio delle casse nasconda ancora robuste plusvalenze, ma sono quasi certo che nasconda gestioni non adamantine (il premio eufemismo d’ oro 2014 è mio), di cui abbiamo visto un esempio con l’ immobile dell’ ente degli psicologi in via della Stamperia a Roma. Che ne dici di eliminarle proprio le casse di previdenza, smobilizzando il patrimonio ed affidandolo con opportuni contratti a qualche compagnia assicurativa (o ad un loro consorzio, per evitare gelosie) ?

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