13
Ago
2009

Banche e crisi, quale va meglio e perché. Regolatori, che fare?

A due anni dai primi segni sui mercati della crisi poi “esplosa” dopo il fallimento di Lehman, inizia a essere tempo di studi comparati sulle performances di coloro dai quali la crisi è nata, banche e intermediari finanziari. Tra i tanti, questo mi sembra particolarmente utile, a opera di Andrea Beltratti della Bocconi e Rene Stulz dell’Ohio State University.  Adoperando un vasto data set riferito alle maggiori banche dei Paesi Ocse e utilizzando il criterio del ritorno azionario, i ricercatori si pongono quattro domande. In che modo per le grandi banche i diversi andamenti all’esplodere della crisi e successivamente sono correlati ai modelli di governace degli istituti e a quelli dei Paesi d’origine in cui sono incardinati, poi se e come crisi più accentuate siano legate al modello di regolazione e supervisione nazionale, e infine quali relazioni vi siano con il conto patrimoniale e lo specifico modello di attività dei diversi istituti. Le conclusioni  di Beltratti e Stulz offrono una miniera di buoni argomenti su cui riflettere, per i regolatori alle prese con la modifica delle architetture di vigilanza e dei princìpi contabili.

Grandi banche con modelli di governance di quelli che noi amici del mercato prediligevamo, cioè più shareholder friendly, hanno performato peggio.  Quelle appartenenti a Paesi in cui i regolatori avevano posto requisiti di capitale più rigorosi, hanno performato meglio. In alcuni casi – per questo sottogruppo –  hanno registrato perdite azionarie maggiori nei primi mesi, ma solo perché regolatori forti e indipendenti hanno imposto ricapitalizzazioni energiche, invece di pensare a salvataggi dei peggiori e ad abbassare la disciplina patrimoniale per tutti gli altri, come avvenuto in Paesi dove il regolatore è meno indipendente rispetto alla politica (e il meno tra tutto, oggi, è quello americano!).  I regolatori “forti” hanno preferito perdite maggiormente addossate agli azionisti, e aumenti di capitale onerosi per loro, piuttosto che addossare i costi della minor disciplina patrimoniale bancaria al contribuente. Le banche più forti sul Tier1 e con più depositi sono candidate nel medio periodo a risultare premiate:  ma se nel dopo Lehman il vantaggio doveva andare a quelle con asset più liquidi e maggiori impieghi ordinari, il compromesso a sostenere le peggiori realizzato da grandi regolatori come quelli americani  rischia invece di rimettere in posizione di vantaggio chi incentra il proprio modello soprattutto sul propriety trading  e che ancor oggi può contare su una disciplina patrimoniale e su una supervisione più lasca di quella di modello italiano. Ecco da dove nasce il perdurante successo di Goldman Sachs.

Questo altro paper, più per addetti ai lavori,offre un suggerimento sul quale sono particolarmente d’accordo. I due economisti svedesi che ne sono autori mettono sotto il microscopio la disciplina dei requisiti di capitale prevista da Basilea II, alla luce di un’analisi approfondita  delle diverse componenti del rischio. Mentre la componente “continua” del rischio  corrisponde a quella generalmente stimata e scontata dal mercato, quella erratica collegata al “rischio d’evento” è pressoché totalmente ignorata da Basilea II, nonché volutamente estranea ai molteplici modelli di VaR autoelaborati dalle grandi banche USA (e non solo,vedi D e CH). Il risultato paradossale è che il rischio “d’evento” pesa fino al 30% del rischio di portafoglio complessivo  delle aziende small caps – classicamente in settori diversi da quello finanziario, i cui libri sono passati sotto severo esame dalle banche per decidere se concedere o meno credito – mentre pesa meno dell’1% per le grandi banche, da cui la crisi si è originata proprio per questo.  I regolatori e il Financial Stability Board guidato da Mario Draghi potrebbero utilmente dedurne che occorrono requisiti di capitale variabili  per tipo di asset finanziario intermediato con diverso rischio di solvibilità e di prenditore, imponendo alle banche commerciali – che lavorano con denaro dei depositanti – una total disclosure in materia. Negli Usa, al momento – ma ripeto non solo lì- non si è visto niente di tutto questo, sinora.

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