29
Nov
2018

Asset forfeiture: esiste un limite a ciò che uno Stato americano può confiscare?

La Corte Suprema avrà l’occasione di riaffermare il principio per cui la libertà non è solo assenza di costrizioni fisiche, ma anche esercizio dell’autodeterminazione che deriva dal godimento e dalla disposizione di ciò che è nostro

Nel 2013, Tyson Timbs è stato arrestato dalle forze di polizia dello Stato dell’Indiana in flagranza di reato, per aver venduto ad agenti sotto copertura 225 $ di droghe. A seguito della sua incriminazione, Timbs ha patteggiato una pena di un anno in detenzione domiciliare, di cinque anni in libertà vigilata e una pena pecuniaria di 1.200 $. Lo Stato dell’Indiana, però, ha esercitato i propri poteri di asset forfeiture per confiscare il Land Rover di proprietà di Timbs, sul presupposto per cui l’auto era un accessorio del reato, visto che su di essa il condannato viaggiava al momento della compravendita di sostanze stupefacenti. È opportuno evidenziare che il valore del Land Rover – che Timbs ha acquistato spendendo i soldi ricevuti a seguito della riscossione della polizza sulla vita del padre – è stato stimato in oltre 40.000 $: cioè centottantaquattro (184) volte superiore alla somma coinvolta nel reato e quattro (4) volte superiore al massimo edittale di pena pecuniaria prevista dalle norme incriminatrici (10.000 $). Per questa ragione, Timbs ha chiesto l’intervento di un giudice, sostenendo che la confisca della sua auto fosse una violazione del divieto costituzionale – stabilito dalla cd. Excessive Fines Clause dell’VIII Emendamento– di comminare pene pecuniarie (ivi comprese le confische) “eccessive”, in quanto prive di un rapporto di proporzionalità rispetto al reato commesso. Un tribunale di primo grado e una corte d’appello statali hanno ritenuto fondata la doglianza di Timbs, ma la Corte Suprema dello Stato dell’Indiana l’ha invece rigettata, affermando che la Corte Suprema federale non si è mai espressa con chiarezza sull’applicabilità o meno dell’Excessive Fines Clause ai governi statali.

Facciamo un passo indietro per inquadrare la vicenda. Com’è noto, il processo di ratifica della Costituzione federale incontrò delle grosse difficoltà allorquando alcune delle originarie tredici colonie espressero il timore che il nuovo governo federale sarebbe potuto essere troppo potente e invasivo (sul dibattito scaturito in proposito, vale la pena rileggersi due classici della scienza giuridica e politica: Il Federalista e l’Anti-Federalista). Il compromesso tra i fautori e gli oppositori della ratificazione fu raggiunto con la promessa di aggiungere degli emendamenti al testo della Costituzione, allo scopo di limitare ulteriormente i poteri del governo centrale: quegli emendamenti (dieci) costituiscono ciò che è oggi noto come Bill of Rights. Quest’ultimo fu originariamente inteso come applicabile esclusivamente nei confronti del governo federale, ma è opinione comune (ancorché non unanime) che l’approvazione del XIV Emendamento (a seguito della Guerra di secessione) abbia avuto l’effetto di estendere la protezione dei diritti dettata dal Bill of Rights anche ai governi statali. Per essere più precisi, è stata la Corte Suprema, caso per caso, in forza della cd. doctrine of selective incorporation, a decidere quali Emendamenti – e perfino quale clausola di ciascuno di questi ultimi – potessero essere invocati anche contro un governo statale: la garanzia costituzionale avrebbe trovato applicazione ogni qualvolta essa, per usare le parole della sentenza Washington v. Glucksberg (1997), fosse stata prevista a tutela di una libertà «deeply rooted in [America’s] history and traditions» e «fundamental to [a] scheme of ordered liberty». Ed ecco la domanda indirizzata alla Corte Suprema: il divieto di pene pecuniarie eccessive è invocabile contro una legge statale che disponga la confisca di un bene privato, senza rispetto di un limite di proporzionalità?

A giudicare dall’udienza pubblica che si è tenuta di fronte ai Justice, la risposta sembrerebbe positiva: benché le difese dello Stato non fossero prive di pregio, i giudici – dal più “conservatore”, Justice Thomas, al più “progressista”, Justice Sotomayor – non hanno mostrato dubbi sul fatto che, per parafrasare ciò che ha detto Justice Gorsuch, non ha senso discutere nel 2018 del fatto che il Bill of Rights possa essere ancora solo “selettivamente” applicato: ciascuna delle sue previsioni è di per sé profondamente radicata nella storia e nelle tradizioni statunitensi e, pertanto, risulta fondamentale per la tutela delle libertà individuali. È probabile che i giudici mostreranno delle divisioni sul dettaglio della decisione (dal modo in cui il Bill of Rights deve ritenersi “incorporato” – se attraverso la due process clause o la privileges or immunities clause del XIV Emendamento – alla sua completa applicazione: tre dei giudici in carica sono convinti che il II Emendamento non sia invocabile a livello statale e locale), ma non sembra che queste divergenze possano inficiare un risultato che si annuncia come ampiamente prevedibile. D’altro canto, già Justice Scalia – nella sua concurring opinion in Austin v. United States (1993) – aveva, con la solita presciente lungimiranza, argomentato che «for the Eighth Amendment to limit cash fines while permitting limitless [property confiscation] would make little sense, altering only the form of the Star Chamber abuses that led to the provision of the English Bill of Rights, from which our Excessive Fines Clause directly derives».

Se tutto andrà come previsto, dunque, si tratterà di una vittoria di straordinaria importanza tanto per la limitazione della potestà punitiva degli Stati, quanto per la tutela dei diritti di proprietà: ciò spiega perché a sostegno della causa introdotta da Timbs si siano schierate associazioni di ogni venatura ideologica, dai conservatori ai progressisti, passando per i libertari (ai quali, per il tramite dell’Institute for Justice, va riconosciuto il merito di aver costruito il caso: avercene, di associazioni che difendono le libertà individuali di ciascuno in modo così appassionato…). In definitiva, la Corte Suprema avrà l’occasione di riaffermare il principio per cui la libertà non è solo assenza di costrizioni fisiche, ma anche esercizio dell’autodeterminazione che deriva dal godimento e dalla disposizione di ciò che è nostro: ovviamente, ciò non farà felici gli Stati, i quali hanno, in tutti questi anni, approfittato delle confische senza freni per assicurarsi una facile e cospicua fonte di entrate (cd. policing for profit). Chissà se questo vento d’oltreoceano riuscirà a spingersi sino alle coste della nostra penisola, così incoraggiando i tribunali italiani a fare chiarezza, una volta per tutte, sui confini e sui limiti dell’applicabilità delle varie forme di confisca dei beni previste dal nostro ordinamento, le quali sono – sempre più – delle vere e proprie “pene nascoste”.

@GiuseppePortos

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