1
Lug
2014

1 luglio: aumentano le tasse sul risparmio

Da oggi cambia l’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie “pure” (stando alla definizione del ministro Padoan). Già, perché l’aliquota su dividendi, capital gain e interessi (non da titoli pubblici) passa dal 20% al 26%, mentre quella su interessi derivanti da titoli di stato e buoni fruttiferi postali (rendite finanziarie non pure, si desume) rimane fissa al 12,5%.
E pensare che l’articolo 47 della costituzione ci dice che “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Questo era vero forse un tempo. Oggi non lo è più sicuramente.
Cosa sono, infatti, le imposte sulle rendite finanziarie, se non imposte sul risparmio?
Il risparmio privato, è noto, rappresenta quella parte di reddito che non viene consumata nell’intervallo di tempo in cui tale reddito viene percepito. Come insegna Hazlitt, in una società moderna quasi tutto il risparmio si traduce, direttamente o indirettamente (attraverso le banche), in investimento. “Al giorno d’oggi – scriveva nel 1946 – non c’è molta gente che, in una società moderna come gli Stati Uniti, conservi monete o banconote nelle calze di lana o sotto i materassi”. Quasi settanta anni dopo, è ragionevole credere che non ce ne sia molta neanche in Italia.
Tassare pertanto le rendite finanziarie del risparmio investito nel mercato mobiliare significa disincentivare il risparmio, più che tutelarlo e incoraggiarlo, come invece avrebbero voluto i costituenti.
Negli ultimi anni, a partire dall’agosto del 2011, si è assistito a un vero e proprio accanimento del legislatore nei confronti del risparmio degli italiani (il quale, per la cronaca, continua a scendere). Dopo quasi 3 anni di provvedimenti all’insegna dell’emergenza, tra introduzioni di nuove imposte (imposta di bollo e Tobin Tax) e inasprimento di vecchie aliquote, a oggi la pressione fiscale gravante sul risparmio investito in strumenti mobiliari è tra le più pesanti in Europa. Per riassumere rapidamente la situazione, si pensi al caso di un investitore che avesse deciso, 3 mesi fa, di acquistare un pacchetto di azioni del valore di 10000 euro di una certa società, che negli ultimi mesi del 2014 gli frutteranno un dividendo del 5% (500 euro). Ecco le imposte che il nostro investitore sarà tenuto a versare.

Tobin Tax su acquisto: 0,1% = 10€
Imposta di bollo: 0,2% = 20€
Aliquota sul dividendo di 500€: 26% = 130€
TOTALE (su reddito di capitale): 32% = 160€

A fronte di un dividendo percepito di 500 euro, il primo anno il nostro risparmiatore sarà costretto a versare 160 euro di imposte, con un’aliquota reale del 32%. Negli anni successivi, assumendo che egli percepisca lo stesso dividendo, non dovendo più pagare la Tobin Tax, dovrà comunque pagare 150 euro di imposte, con un’aliquota reale del 30% (ipotizzando ovviamente che il valore del pacchetto azionario resti invariato negli anni; ipotesi poco realistica, ma utile per farsi un’idea).
A parte i dubbi di natura costituzionale (addio alla tutela del risparmio), sorgono serie perplessità sull’efficacia di un sistema così disegnato, senza paragoni in Europa.
La prima perplessità riguarda le previsioni di gettito. Con questo sistema l’investimento mobiliare viene disincentivato ed è facile prevedere che si assisterà allo stesso film a cui si è assistito con la Tobin Tax. Da quando è stata introdotta, il valore di scambio medio giornaliero dei titoli soggetti alla nuova tassazione parrebbe calato del 30% in Italia, a fronte di un aumento del 4,5% in Europa. Il gettito previsto ora è pari al 30% rispetto a quanto stimato inizialmente. Inasprire ulteriormente le aliquote per i nettisti italiani potrebbe disincentivare questi ultimi ad adottare quel comportamento virtuoso (risparmiare) che in passato li ha contraddistinti. Il risultato sarà, ancora una volta, un gettito fiscale minore del previsto.
La seconda perplessità, forse ancor più grave, riguarda la repressione finanziaria in atto a favore dei titoli pubblici, espressione di una stato concentrato più a tutelare il proprio debito che il risparmio dei cittadini. E’ facile prevedere che il singolo investitore avrà un occhio di riguardo verso i titoli pubblici ancor più di quanto già non accada. Questo comporterà maggiori difficoltà nell’accesso al credito. Pensiamo, ad esempio, al risparmiatore che, a scadenza, non rinnoverà i propri depositi bancari vincolati per comprare i meno tassati titoli di debito pubblico o buoni fruttiferi postali. Questo passaggio provocherà un aumento del costo della raccolta bancaria, dal momento che le banche dovranno offrire un rendimento netto competitivo rispetto a quello dei titoli pubblici o dei buoni fruttiferi postali. Presumibilmente, i costi ulteriori ricadranno sui prestiti, con l’ultimo effetto di deprimere l’attività privata e così la crescita e l’occupazione.
Il tema dell’occupazione merita una breve considerazione conclusiva. Si evidenzia spesso, specialmente in un momento di difficoltà come quello che stiamo attraversando, la necessità di incrementare gli occupati nei settori ad alto valore aggiunto. L’industria del risparmio presenta livelli di professionalità, redditività e tecnologia molto elevati, creando, a oggi, occupazione e reddito a vantaggio di circa 600.000 famiglie, senza contare l’indotto. Purtroppo, con una fiscalità di questo tipo, più che incrementare l’occupazione, si corre inevitabilmente il rischio di perdere quella esistente (8 SIM chiuse nel 2013 rappresentano un segnale scoraggiante), facendo spostare altrove le imprese finanziarie a vantaggio di paesi nostri concorrenti.

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