21
Feb
2019

La Corte costituzionale: no alla «democrazia in deficit»

La Corte costituzionale – con sentenza n. 18/2019 – ha dichiarato incostituzionale la disposizione che consente agli enti locali in stato di pre-dissesto di ricorrere all’indebitamento per gestire in disavanzo la spesa corrente per un trentennio. Per dirla in modo meno tecnico, la Corte ha eliminato una scappatoia che il legislatore aveva offerto ai tanti enti locali italiani appesantiti da bilanci fuori controllo, nel momento in cui aveva consentito a questi ultimi – pur strutturalmente in disavanzo – di contrarre ulteriore debito per finanziare la spesa corrente e di spalmare il piano di rientro su un arco temporale lunghissimo (fino a trent’anni). Sollecitata da un’ordinanza di rimessione puntuale e attenta, proveniente dalla sezione regionale campana della Corte dei Conti, la Consulta ha così avuto l’opportunità di censurare questa disciplina, evidenziandone tre profili di incompatibilità con la carta costituzionale (in specie, con i suoi artt. 81 e 97): violazione dell’equilibrio di bilancio; violazione del principio di rappresentanza democratica; violazione dell’equità intergenerazionale. È necessario spendere qualche parola per ciascuno di questi profili, nella consapevolezza che – all’interno della ricostruzione motivazionale elaborata dalla Corte – questi non si pongono come punti a a sé stanti, ma sono piuttosto legati da un rapporto di reciproca dipendenza.

Quanto alla violazione dell’equilibrio di bilancio, il giudice delle leggi ha messo in evidenza come i precetti normativi espressi negli art. 81 e 97 co. 1 Cost. – a norma dei quali tanto lo Stato centrale, quanto gli enti locali (in funzione di pubbliche amministrazioni) sono tenuti ad assicurare l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico – dettano delle indicazioni chiare su come affrontare (e, auspicabilmente, risolvere) il problema dei disavanzi di bilancio. Ciò al conclamato scopo di assicurare che al deficit si ponga rimedio quanto più immediato possibile e, in ogni caso, non oltre la scadenza del mandato elettorale, affinché gli amministratori possano presentarsi in modo trasparente al giudizio dell’elettorato, senza lasciare “eredità” finanziariamente onerose e indefinite ai loro successori e ai futuri amministrati. In caso contrario, si integrerebbe una violazione del principio di rappresentanza democratica, il quale è, innanzitutto, un principio di responsabilità politica di fronte agli elettori: come chiarisce sempre la Corte, se agli amministratori in carica dovesse essere consentito di spostare fino a trent’anni nel futuro il processo di razionalizzazione e riorganizzazione delle spese, «nessuno degli amministratori eletti o eligendi sarà nelle condizioni di presentarsi al giudizio degli elettori separando i risultati direttamente raggiunti dalle conseguenze imputabili alle gestioni pregresse». Il che vuol dire che un sindaco o un presidente di regione potrebbe spendere e spandere (in «politiche di “corto respiro”», come le definisce la sentenza in commento) senza doversi preoccupare delle disponibilità di cassa e, allo stesso tempo, ponendo un’ipoteca sull’azione del suo successore, il quale si troverà obbligato a far quadrare i conti che altri hanno lasciato allo sbando. Ciò conduce all’ultimo e più grave profilo di illegittimità costituzionale, rappresentato dalla violazione dell’equità intergenerazionale: «la lunghissima dilazione temporale finisce [per far sì] che sugli amministrati futuri verranno a gravare sia risalenti e importanti quote di deficit, sia la restituzione dei prestiti autorizzati nel corso della procedura di rientro dalla norma impugnata». Ma in questo modo, ammonisce la Consulta, si grava in modo sproporzionato sulle opportunità di crescita delle generazioni future, sottraendo a queste ultime le risorse necessarie per un equilibrato sviluppo.

Con questa sentenza, la Corte mostra di avere chiaro il funzionamento (perverso) della struttura degli incentivi del finanziamento mediante debito: ciò è specialmente vero quando, nelle sue conclusioni, essa mette in luce come «l’indebitamento debba essere finalizzato e riservato unicamente agli investimenti in modo da determinare un tendenziale equilibrio tra la dimensione dei suoi costi e i benefici recati nel tempo alle collettività amministrate». Forse è solo una suggestione di chi scrive, ma pare possibile ritrovare, in quest’ultimo passaggio, traccia degli insegnamenti della scuola di public choice e, in particolare, di Buchanan e Wagner, i quali, non a caso, sono stati tra i principali fautori della costituzionalizzazione del principio del pareggio/equilibrio di bilancio (lo stesso che la Corte ha posto a fondamento della sentenza in parola) e hanno mostrato con chiarezza i guasti cagionati da una «democrazia in deficit». E, cioè, da un sistema che – per mezzo della leva del debito, che scarica i costi della spesa corrente sulle generazioni future – finisce per deresponsabilizzare non solo gli eletti, ma anche gli elettori.

@GiuseppePortos

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1 Response

  1. Davide

    Perchè la corte costituzionale, e prima ancora il presidente della repubblica, non hanno detto niente sull’ultima manovra economica, che, incrementando volontariamente il deficit, va platealmente contro l’obbligo costituzionale di pareggio di bilancio, recepito col fiscal compact nel rinnovato art. 81?
    A cosa serve la costituzione, solo a fare da paravento quando la corte si inventa cose che non dice per perseguire fini politici, come sempre più spesso accade?
    Vedasi ad esempio sostanziale equiparazione tra cittadini ed immigrati, quando al contrario la costituzione parla quasi sempre di cittadini (eccezion fatta per i diritti umani “base”), “discriminando” ampiamente e volontariamente.

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