26
Nov
2014

Jobs Act: spacca il Pd, ma il bicchiere resta mezzo vuoto

Matteo Renzi l’ha spuntata: il Jobs Act alla Camera ieri è passato senza ricorso al voto di fiducia, e ha retto all’uscita dall’aula di tutte le opposizioni e di 29 parlamentari Pd nel tentativo di far mancare il numero legale, e al voto contrario di un’altra patttuglia di dissidenti Pd. Certo, ha avuto solo 316 voti, uno solo in più del necessario per un voto di fiducia a Camera piena, ma per il governo è stata comunque una prova vinta, visto che il voto regionale appena tenutosi ha dato una bella scossa all’intero quadro politico.

Per Renzi, a contare è innanzitutto il fatto che la minoranza nel suo partito debba d’ora in avanti sempre più assumersi la responsabilità di manifestare concretamente la propria opposizione, in nome di un’idea altra e diversa di che cosa sia la sinistra sul lavoro, e di come la sinistra debba fare imprescindibilmente asse con i sindacati. E’ una sfida a viso aperto: al premier va riconosciuto che non si tira indietro. E’ una scelta che mette anche in conto, se l’opposizione interna volesse giungere alla crisi facendo mancare al governo i voti per procedere, che ce la si vedrebbe alle urne. E’ una novità assoluta, nella storia della sinistra di governo italiana.

Che cosa ne verrà di concreto con il Jobs Act alla prostrata economia italiana, è un altro paio di maniche. E’ la quinta riforma del lavoro in 5 anni: viene da dire che a furia di ritocchi al margine, per le imprese non si finisce di studiare gli oneri della riforma precedente che già le regole son cambiate. La sua approvazione – il testo deve ora tornare in Senato, per ratificarne le modifiche – fa parte del ristretto pacchetto di quelle riforme in nome delle quali la Commissione Europea ha ieri promosso con riserva la legge di stabilità italiana, dando appuntamento per una verifica al prossimo marzo. Quanto al merito dei princìpi approvati, in base ai quali bisognerà poi emanare una bella sfilza di decreti delegati attuativi, il giudizio va distinto in quattro parti. C’è ciò di cui più si è parlato, che rivestiva e riveste un significato soprattutto simbolico: e cioè il famigerato articolo 18. C’è una scelta di fondo per un nuovo canale prioritario di ingresso al lavoro, il contratto a tutele crescenti, la cui bontà dipenderà in concreto da come esso convivrà con quali e quanti contratti a tempo, e come verrà considerato rispetto al canale che meritava invece davvero di essere considerato prioritario: l’apprendistato. C’è una parte positiva in principio ma che oggi è strozzata da uno stanziamento di risorse risibile, cioè la riforma degli ammortizzatori sociali. E c’è infine una parte che avrebbe dovuto essere considerata la più importante di tutte e che resta di fatto tutta da scrivere, quella della nuova Agenzia del lavoro per intermediare domanda e offerta di occupazione. Come si vede, il giudizio complessivo non può essere improntato a un generico ottimismo.

Che l’articolo 18 fosse un simbolo – con tutta l’importanza metafisica che hanno i simboli –  lo si è capito dal fatto che ancora una volta è diventato il catalizzatore ideologico del pieno dissenso sindacale e della minoranza Pd. L’abolizione del reintegro giudiziale per i licenziamenti individuali economici – che era restato insieme all’indennizzo nella riforma Fornero – è un altro passo avanti verso la risoluzione arbitrale e non conflittuale dei rapporti. In concreto, però, quanto più nei decreti attuativi sarà pervasiva la lista delle fattispecie per le quali resta il reintegro giudiziale nei licenziamento discriminatori e soprattutto disciplinari, tanto più le cose potrebbero non cambiare poi di molto. In ogni caso, visto che poi la nuova disciplina si applicherà solo ai neo assunti, valeva la pena concentrare almeno altrettanta attenzione sul resto del Jobs Act, che avrà un impatto senz’altro maggiore sull’occupabilità. Peccato non sia andata così.

Sull’inserimento a tutele crescenti, in teoria ragionevolissimo, in pratica dipenderà dal governo in fase di attuazione decidere quanto “forzarlo” come unico canale verso l’occupazione a tempo indeterminato. Oggi, solo il 15-16% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato: e finché le imprese avranno carichi fiscali tanto elevati, margini così bassi e domanda tanto volatile e bassa, è impossibile credere di obbligarle a passare dal 15% al 100%. Significa solo avere meno occupati. Pensate a quel che è avvenuto l’altro ieri: i precari dipendenti dei call center sono scesi in sciopero manifestando a favore del contratto a progetto che la politica vuole abolire, perché sanno benissimo che realisticamente le aziende di call center un contratto a progetto possono concederlo, un più oneroso contratto a tempo indeterminato significherebbe chiudere, spostare il servizio in Albania o Croazia.

La fine della cassa integrazione sostituita integralmente dall’ASPI universale, cioè da un sostegno al reddito volto alla riqualificazione e non più al sogno di difendere il lavoro dov’era e com’era, dipenderà invece dalle risorse. Inizialmente era promesso un miliardo e mezzo, e già era del tutto inadeguato (l’ASPI “copre” meno della CIG, a meno di alzare i contributi alle imprese, visto che la Cassa in deroga era a carico della fiscalità generale). Per strada si è perso anche quello. Tenete conto che l’Italia spende nel 2014 quasi 30 miliardi in politiche “passive” per il lavoro – gli ammortizzatori – e meno di un quinto in politiche attive, di cui la metà solo per pagare chi le dovrebbe realizzare. L’Italia avrebbe fortissimamente bisogno di riequilibrare le due voci, perché è solo con la formazione verso nuovi lavori e figure professionali che alziamo l’occupabilità. E lo stesso discorso vale per l’Agenzia del lavoro, che non può e non deve essere la somma degli attuali dipendenti degli uffici provinciali del lavoro, che intermediano il 2% dei nuovi occupati e sono solo una sinecura sindacale.

Quattro osservazioni finali: sui giovani, gli autonomi, la PA, e il Sud.

Ai giovani disoccupati, l’Italia sta offrendo l’ennesima colossale disillusione: dei 300mila iscritti da maggio Garanzia Giovani – che pure vanta una dote milardaria europea – solo il 29% ha avuto il misero beneficio di un primo colloquio, il 71% neanche quello. Possono credere a uno Stato capace di politiche attive per il lavoro, quei giovani rassegnati e per l’ennesima volta presi per i fondelli?

Quanto ad autonomi, free lance e partite IVA, sono per l’ennesima volta i grandi assenti nel Jobs Act. Come nel bonus 80 euro. Eppure, se si ammalano non hanno alcuna tutela. Eppure, pagano di contributi nella gestione speciale INPS più dei dipendenti. Finché la politica non capirà che dipendenti e autonomi sono lavoratori egualmente degni, l’Italia resterà zoppa.

Quanto al lavoro pubblico: se voleva essere rivoluzionario, Renzi doveva parificarlo in tutto e per tutto al privato.  Invece, niente. Non capirò mai il perché. Del resto, non c’è neanche la svolta a favore dei contratti decentrati rispetto al contratto nazionale di categoria: e senza quella svolta, alzare la produttività è ben difficile.

Infine, il Mezzogiorno. Sui posti di lavoro persi in Italia con la crisi dal 2008 il 59 per cento sono mancati al Sud, quasi 600 mila occupati in meno. Nell’industria, in Italia gli occupati si sono ridotti del 9,6 per cento, ma al Sud del 14 per cento. Nelle costruzioni il Nord ha perso il 15,7 per cento di occupati, ma il Sud il 32 per cento, oltre 200 mila posti di lavoro evaporati in questo solo settore. E’ dura da mandar giù, ma nel Jobs Act non c’è nessuna terapia specifica o sperimentale, per questa voragine di reddito, giustizia e coesione sociale.

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8 Responses

  1. Filippo

    infatti,tutto questo cancan sull’articolo 18 è servito a nascondere il fatto che dietro c’è poco o niente di innovativo.Aspettiamo di vedere se e quando i decreti attuativi daranno vita a questa riforma,oppure rimarrà lettera morta già dimenticata da tutti tra tre/quattro settimane.Questo premier ha la brutta abitudine di fermarsi agli annunci,mi ricordo che aveva promesso che entro la fine di agosto si sarebbero occupati anche dei poveri tapini di “quota 96”,che non è una cima di montagna come si potrebbe pensare,e guarda un pò non è successo niente e di questi 4000 non se ne parla più.
    Uguale sorte per la roboante riforma epocale dell’amministrazione pubblica:qualcuno ne sa qualcosa?andiamo pure avanti così finchè ce n’è,una palude politica in cui prima la destra o cosidetta tale è sprofondata causa Berlusconi e da cui sempre causa Berlusconi non riesce ad uscire e adesso anche la cosidetta sinistra l’ha seguita,guidata da questo istrione.

  2. adriano

    Soliti ragionamenti col solito finale,mancano le risorse.Se la ricchezza reale può derivare solo dall’attività creativa dell’imprenditore privato,quella artificiale può arrivare solo da quello pubblico che non può essere scartato,quando serve.E se la situazione da fisiologica diventa patologica,serve.L’amato Landini ha ragione quando parla della necessità di investimenti pubblici,anche se si dimentica che non è la condizione per vivere ma quella per non morire.Ha torto quando non ricorda che non può essere la soluzione permanente ma solo transitoria e non aggiunge una condizione indispensabile.La libertà di stampa,che non è quella dei giornali.L’America,la Gran Bretagna,il Giappone hanno inondato di valuta i mercati con risultati magari incerti e opinabili ma la domanda da porsi è :possibile che tutti sbaglino tranne noi?Penso di no e chi dice di sì dica anche come si fa altrimenti a risolvere in modo rapido il problema principale,la qualità della vita dei cittadini.L’unico modo è dare un reddito a chi non ce l’ha e non lo può avere perchè la macchina è ferma.Per farlo c’è solo l’attivazione di quella pubblica che può alimentarsi dal nulla.Dispiace che questo contrasti con i sacri principi del severo liberismo ma altra soluzione non c’è.

  3. Giorgio

    @adriano
    La macchina pubblica può alimentarsi dal nulla? Non mi pare una posizione tanto diversa da quella di Landini, quando oppone il suo “i soldi ci sono” a qualsiasi obiezione fondata sullo stato disastroso delle finanze pubbliche. E’ proprio per posizioni come queste che i debiti pubblici stanno esplodendo in tutto il mondo. E se non li pagheremo noi, li pagheranno carissimi i nostri figli e nipoti, sempre che prima non abbiano fatto giustizia sommaria di coloro che li hanno gettati sul lastrico, ossia noi stessi. Ironizzi pure sui sacri principi del severo liberismo, ma se si fosse seguito un po’ di più il principio del buon padre di famiglia anche in campo pubblico, ossia che non è saggio spendere più di quanto si guadagna, ora non staremmo facendo questi discorsi.

  4. MG

    Non trovo nulla di contrastante nelle vs affermazioni. Se lo stato “inondasse” di denaro l’Italia con investimenti pubblici innazitutto significherebbe che lui per primo crede nella capacità della nostra economia di risollevarsi..e quindi lui stesso per primo sarebbe un “severo liberista”…che nessuno stato per piccolo che sia riesce a vivere solo di economia pubblica per sempre…eccetto coloro i quali hanno immense risorse naturali sotto i loro fortunati piedi…ma prima o poi finisce pure per loro. Oltre ai “grandi assenti” dalla riforma del lavoro sopra citati esplicitamente e implicitamente (gli imprenditori) metterei anche la scuola, considerata sempre e solo a parte..come se appartenesse ad un altra galassia..solo come oggetto di investimento per tenere in piedi le strutture…e ancora una volta futura vittima sacrificale proprio in virtu della carenza di risorse. Ma allora? nulla possiamo fare? La macchina non si puo riformare perche troppo impegnata a difendersi dai cattivi speculatori che vogliono “mungere la mucca” usando il nostro debito come “mungitore”?…Ma questo premier non si era insediato dicendo che occorreva partire dai costi della macchina pubblica…perchè è proprio grazie a tali costi esagerati rispetto alle entrate che la macchina è diventata cosi flaccida e debole? dalla spending review? dai meccanismi di rappresentanza elettorale?..e adesso siamo “atterrati” di nuovo sull’ art. 18?…dopo l’ennesima “mungitura”..e l’n-esima infornata di “scandali” (uso il virgolettato perche per parlare di scandalo credo siano necessarie le condizioni culturali e sociali al contorno affinchè qualcuno si scandalizzi..) e corruzione…of course. Qualcuno mi spiega dove è la novità rispetto agli ultimi 30 anni..escluso che oggi lo show mediatico-elettorale è 24H, 7 gg/7gg..mentre prima qualcuno agitava il vessillo della “par condicio”? Oppure si vuole sostenere il riformatore per riformare e tagliare i costi ha bisogno di spendere di piu rispetto a quando i costi nessuno voleva ridurli? Io credo che nessun investitore privato sano di mente investirebbe un euro in Italia oggi. Finche lo stato non cambia le cause che portano a questo effetto non si fermerà la caduta libera.

  5. adriano

    @Giorgio Approfitto del suo commento,che in parte condivido,per fare anche a lei una semplice domanda di cui ancora non conosco la risposta.Qual’è il limite oltre il quale,in un un paese sovrano,il debito pubblico non è sostenibile e perchè?

  6. MARCO

    solo esibizione, dietro cui gli italiani han sempre corso di lingua
    nessuno che si impegni sui fatti FACTS SPEAK LOUDER THAN WORDS ma i fatti sottendono meritocrazia THERE’ THE RUB nessuno la vuole TROPPO PERICOLOSA quella è vera rottamazione automatica SUI RISULTATI

  7. Andrea

    Giannino, ma le idee di fondo del Job Act a quale idea di sviluppo e di lavoro rispondono? Il compito di un Parlamento e di un Governo sono quelli di “adeguarsi ai trend” dei Paesi con cui compete o di azzardare, scommettere, individuare vie che possano anticipare i cambiamenti in base ai plus che il Paese può o potrebbe offrire? Insomma il gusto mortifero del dibattito ideologico, o dietrologico, sx-dx è possibile che sopravanzi ad ogni livello delle analisi della realtà volte a percepire possibili strategie volte ad anticipare i cambiamenti?
    La NHTSA –averla noi un autority così in Europa- ha pubblicato i suoi dati storici. Negli ultimi 20 anni per ogni auto venduta negli USA ben 0.82 sono state richiamate per difetti di fabbricazione. Tra i peggiori produttori, colpiti tra l’altro con multe da capogiro, troviamo GM e Toyota. Sì, la casa giapponese leader mondiale nell’organizzazione d’impresa, che con il suo pensiero influenza qualunque settore produttivo e dei servizi, privato o pubblico.
    Perché auto e non altro? Perché rimane ad oggi il bene di massa più complesso. La distinta base di un razzo lunare è senz’altro più complessa, ma di auto se ne fabbricano e vendono molte di più. Quindi: in fatto di modelli organizzativi e quindi di lavoro l’auto era ed è il settore che crea i trend che poi si scaricano sulle varie economie, ben al di là dello stesso peso, già robusto, dell’automotive.
    E allora? Possibile che a 30 anni dalla più ampia diffusione dei sistemi qualità, dopo 20 anni di avvento della lean production nelle sue varie forme il risultato, la promessa di eccellenza cui siamo arrivati è racchiusa in una cifra, 0,82%, che rasenta l’infamia?
    La lettura che molte di queste organizzazioni stanno dando –non senza problemi- è tanto semplice quanto sconfortante: abbiamo fatto i compiti a metà e questo è il risultato. Con la lean si è infatti iniziato ad ascoltare i clienti, a semplificare tutto il sistema ma … con un ma. Si è pensato infatti che una delega robusta verso il basso, nelle mani di chi crea valore (progetta, assembla, vende) non era necessaria. Anzi, si è fatto il contrario spinti dal positivismo di ingegneri che continuano ad assimilare i metodi alle macchine senza fare i conti con la variabile persona. Essere umano. Che può essere foriero di grandi ricchezze o di infiniti problemi e miserie.
    I prodotti escono difettosi perché l’organizzazione non è in grado di vedere i problemi per tempo. Non li vede perché i compiti di vedere, analizzare e risolvere sono sempre “sopra” nella catena gerarchica. Sotto si fa finta, si fa appunto “a metà” senza trovar ragione della scarsa reattività di soggetti cui chiedi sempre di più senza attivare feedback o adeguarne i compiti in modo progressivamente significativo in una logica ABC. Si truccano i dati, si falsificano le statistiche per apparire ok. E si consegnano ai clienti prodotti pieni di difetti. Negli ultimi 30 anni sono stati abbattuti i lead time di produzione di circa un terzo, ma con risultati pessimi. Da Toyota in giù.
    Questi eventi dovrebbero essere motivo di riflessione per uno Stato che ha deciso di reimpostare le sue politiche sul lavoro. Perché, in una situazione mondiale che presenta risultati così critici, un Paese dovrebbe interrogarsi per trovare risposte, della serie: c’è una alternativa e io, come sistema Paese, posso approfittarne prima e meglio di altri? Posso trarre dei vantaggi da un problema, facendolo diventare una opportunità?
    Io penso di sì perché il nostro limite, essere un Paese trasformatore, scarso di materie prime, è anche il nostro vantaggio. Perché siamo ampiamente allenati al problem solving, intendo come popolazione. Spesso confuso, o tradotto, con l’arrangiarsi. Un dato interessante: laddove, nei rari casi, si è operato per delega, offrendo cioè a chi produce valore spazi vitali per attivare il cervello si sono raggiunti risultati sbalorditivi. Un team capo/operai italiani impiega in un esercizio di problem solving la metà del tempo di uno tedesco o nordamericano con risultati (soluzioni) mediamente più semplici e molto più redditizie. Poi c’è naturalmente anche il dato negativo: il team italiano, dopo il brillante exploit, muore o finisce dentro improduttive routine burocratiche mentre quelli non italiani continuano, senza brillare, ma con risultati.
    Questo è un plus locale. A fronte di un problema irrisolto e su cui tutte le organizzazioni pancia a terra sulla competizione di stanno interrogando criticamente, al di là dei proclami pubblici.
    Quale è la relazione tra tutto ciò è il “Job Act”? Nessuna, naturalmente.
    Il Job Act è una battaglia che guarda alla flessibilità del lavoro senza chiedersi di quale flessibilità abbiamo bisogno, di come deve essere questa flessibilità. Lo stato dell’arte a livello mondiale ci sta dicendo chiaro e tondo che l’idea competitiva non passa per un “lavoro a chili”, low cost, a rapida sostituzione. Le imprese che hanno operato o stanno operando con questa prospettiva andranno a sbattere perché i loro prodotti saranno sempre molto difettosi. Molti pensano che i nuovi mercati, a partire dalla Cina- sono di bocca buona, che accettano qualunque cosa. Un errore che nasce da una mentalità ancora ferma alle sole proprie esperienze. Il boom della Cina –e delle altre economie dominanti- non ha nulla a che fare con il boom economico che fu nella vecchia Europa o nel nordamerica.
    Ecco, quindi, la necessità non di accodarsi a “quello che si fa”, ma, partendo da chi siamo, osare a guardare un po’ più in là. Magari mandando in soffitta un dibattito asfittico e ideologicamente pruriginoso. E deprimente. Negli ultimi 20 anni le organizzazione hanno scoperto di poter fare di più e meglio con la metà delle risorse. Ma non hanno capito che le risorse impegnate vanno gestite in modo completamente diverso se, oltre a fare di più, vogliamo fare meglio e con i conti in ordine, senza trucchi.
    Una Politica con la “P” maiuscola anziché favorire la contrapposizione tra le due categorie più tartassate, lavoratori ed imprenditori, dovrebbe chiedersi come rivitalizzarle partendo dai plus che abbiamo, anziché fare di tutto per tritarne (gli ormai poveri) resti. Senza ossigeno i creatori del valore muoiono e con essi tutto il resto.

  8. Giorgio

    @Adriano
    Domanda che va oltre le mie forze, almeno se vuole una risposta rigorosa. E’ chiaro che i fattori da considerare sono diversi. Il principale direi che è la produttività del sistema economico nel suo complesso. Se questa è superiore al servizio del debito, questo dovrebbe essere tendenzialmente ripagato nel tempo e quindi ridursi. Sulla carta, quindi, questo dovebbe essere un momento assai favorevole per noi, se è vero che siamo vicini ai minimi storici di rendimento (il BTP decennale rende il 2% pa). Ciò però comporta un notevole rigore di finanza pubblica, che noi purtroppo non abbiamo per motivi storici e culturali.

    C’è poi un limite oltre il quale il fardello diventa talmente pesante da non riuscire a essere ripagato se non con continui aumenti della pressione fiscale, che ammazza ancor più il sistema produttivo e, di fatto, fa sì che il debito si auto-fagociti. Anche qui non saprei dirle con certezza quale sia il punto di non ritorno, che immagino non sia comparabile da Paese a Paese.

    I fautori del debito a oltranza citano il Giappone, il cui rapporto debito/pil è circa al 240% eppure non sono ancora falliti. Però sono in stagnazione da 20 anni e la tanto sbandierata Abenomics, di matrice keynesiana, non sta dando i risultati sperati. A differenza degli USA; dove pare (pare) che la cura da cavallo di sei anni consecutivi di allentamento monetario stiano finalmente facendo ripartire la macchina. Ma gli USA sono gli USA, con una produttività e un’efficienza ben superiori a quelle giapponesi, per non parlare delle nostre.

    Quando in Italia si parla di far ripartire gli investimenti pubblici si pensa solo a mungere ancor più le esangui mammelle pubbliche per tirare a campare ancora un po’ ed evitare di confrontarsi con quelle dolorose riforme strutturali di cui tutti si riempiono la bocca. Credo che da noi l’unica tattica corretta sia quella della Reaganomics, ossia “affamare la belva”. Solo così saremo costretti a tagliare realmente dove occorre, per mantenere quei servizi essenziali irrinunciabili, senza cadere nella trappola dei soliti ricatti dei funzionari pubblici nostrani, che minacciano di buttare in mezzo alla strada malati e pensionati non appena si accenna a tagliare la minima voce di spesa.

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